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Un punto di svolta

"Pace fiscale", "ostaggi del fisco", "pizzo di Stato", sono espressioni tutte un po' brutali, ma qualcuno potrebbe negare che il nostro sistema tributario sia, al tempo stesso, esoso, ingiusto e inefficiente?

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«Pace fiscale», «ostaggi del fisco», «pizzo di Stato», sono espressioni tutte un po' brutali, ma qualcuno potrebbe negare che il nostro sistema tributario sia, al tempo stesso, esoso, ingiusto e inefficiente? E che forse varrebbe la pena di varare una sorta di «amnistia» (altra espressione un po' radicale), per poi ripartire da zero, come proposto dal ministro Salvini e da diversi esponenti di Forza Italia?

Ma prima veniamo ai caratteri storici del nostro fisco. Per ragioni geopolitiche, secondo quella sorta di democrazia «pactada» da tempi di Guerra fredda che fu la Prima Repubblica, si convenne che le tasse sarebbero progressivamente state alzate, con il tacito accordo che avrebbero colpito soprattutto i salariati, mentre si sarebbe chiuso un occhio sulle attività private. In cambio, i primi ricevevano, in termini di redistribuzione welfaristica (pensioni ecc.), anche molto di più di quello che avevano versato. Questo apparentemente perfetto ma perverso meccanismo si infranse sull'unificazione europea e sull'avvento della globalizzazione: a partire da quel momento, le imposte crebbero per tutti indistintamente, salariati, imprenditori, commercianti e libere professioni, mentre il welfare fu decisamente ridimensionato. E siamo arrivati ad oggi, con un carico fiscale da paese nordico e servizi sociali da Maghreb, per chi ha la sfortuna di vivere da Roma (compresa) in giù. Un sistema esoso ma anche ingiusto, che infrange il patto tra cittadino e Stato. Come scrive il filosofo liberale francese Philippe Nemo, in un testo fondamentale (Philosophie de l'impot, Presses Universitaires de France, 2017), le tasse non sono infatti un «dovere» dell'individuo immolatosi allo Stato etico, non sono l'apoteosi del «sacrificio» alla collettività. Le imposte sono un contratto: io cedo a te Stato una parte del mio reddito, in cambio di protezione e di servizi. Se questi vengono meno, il patto va in frantumi.

A tutto questo si aggiunga l'inefficienza proverbiale dell'amministrazione, per cui, anche le banali contravvenzioni stradali, utilizzate spesso dai Comuni per fare cassa, si trasformano in cartelle esattoriali in ragione della farraginosità dei tempi di risposta delle contestazioni. Quindi ben venga una sorta di «amnistia fiscale», beninteso per cifre dalle dimensioni compatibili. A una condizione però: che poi il Parlamento affronti una reale e organica riforma, ben al di là della revisione delle aliquote. Che renda il fisco meno esoso, più giusto e, per quanto possibile, più efficiente: a quel punto, non saranno più tollerate scappatoie e men che meno amnistie.

Come negli Usa, dove lo Stato facilita il più possibile nella dichiarazione il cittadino che, però, nel caso poi evada, finisce immantinente in galera.

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