Politica

Renzi e la solitudine del potere Gli resta soltanto Napolitano

A quanto pare sul referendum il premier, di tre alleati non ne ha uno: è solo. L'unico alleato che ha conquistato alla causa è Giorgio Napolitano

Matteo Renzi e Giorgio Napolitano in una foto scattata il 4 novembre
Matteo Renzi e Giorgio Napolitano in una foto scattata il 4 novembre

Primo alleato di Renzi. In uno dei saloni del Senato il sottosegretario di fresca nomina Antonio Gentile (Ncd), disserta su quella che nella narrazione renziana è la madre di tutte le battaglie, cioè il referendum sulla riforma costituzionale. Nel linguaggio di questo senatore calabrese la gestualità è fondamentale. Gentile mima la traiettoria di un aereo e l'accompagna con le parole. «Prima Renzi era in fase di decollo» esordisce puntando le dita della mano destra verso l'alto. «Ma da sei mesi nei sondaggi - aggiunge puntandole verso il basso - è in picchiata». La premessa introduce la sua posizione sul referendum: «Ora o lui cambia la legge elettorale e introduce il premio di coalizione. O per noi votare Sì al referendum è un vero suicidio. Tanto più che per salvarsi Renzi sta riaprendo alla sinistra. Sono dati che non capisce solo quel cervellone di Alfano». Chi avesse dei dubbi che questo sia lo spirito che serpeggia nell'alleato ufficiale del Pd nel governo basta che ascolti due saloni più in là un altro senatore siciliano di Ncd. «Se votiamo Sì al referendum? Non solo non andremo a votare - risponde tranchant alla domanda retorica Salvatore Torrisi - ma faremo anche votare No: non vogliamo mica fare la fine dei tacchini!».

Secondo alleato di Renzi. In un crocchio di senatori nell'aula di Palazzo Madama, Denis Verdini, l'alleato «ufficioso» del Pd nella maggioranza renziana, si lancia in una lectio magistralis sul referendum davanti a un gruppo di senatori leghisti capeggiati da Calderoli. Parla usando parole, da marpione qual è, che colpiscono gli astanti: «Noi di centrodestra». Sulla «madre di tutte le battaglie» osserva: «I miei faranno i comitati per il Sì, siamo obbligati, ma non ci danneremo di certo l'anima. L'ho detto a Renzi: Stai attento, quelli del No sono più motivati. E lui ha impostato la campagna su di sé proprio per mobilitare i suoi. A noi, comunque, va bene qualsiasi risultato: se vince il Sì siamo sul carro del vincitore, se vince il No saremo ben felici di appoggiare un governo tecnico che arrivi fino al 2018».

Terzo alleato di Renzi. Un attimo prima di votare l'ennesima fiducia al governo Renzi (siamo alla 55ª o alla 56ª, si è perso il conto) Pier Ferdinando Casini, grande estimatore del premier che si pregia anche di essere suo consigliere, veste i panni dell'oracolo. «Io l'ho già spiegato a Matteo - confida - che al referendum vincerà il No. Gliel'ho detto e ridetto. Come pure gli ho fatto presente che se vuole evitare la sconfitta ha un'unica strada: modificare l'Italicum».

A quanto pare sul referendum il premier, di tre alleati non ne ha uno: è solo. L'unico alleato che ha conquistato alla causa è Giorgio Napolitano; ma per averlo dalla sua parte prima Renzi ha dovuto pronunciare un mea culpa per le intemperanze dei mesi scorsi sull'Ue; poi ha dovuto accettare la nomina di Alessandro Pansa, un prediletto dell'ex inquilino del Quirinale, al Dis, l'organismo di coordinamento dei servizi segreti. Ora i due viaggiano in coppia, magari anche troppo, visto che siamo allo scambio dei ruoli. È una novità, infatti, che un premier annunci la nomina di un nuovo ministro (quello dello Sviluppo economico) nella trasmissione di Fazio, come pure che un presidente emerito l'altro ieri informi l'aula di Palazzo Madama che il governo avrebbe posto l'ennesima fiducia. Più che a un nuovo galateo istituzionale, siamo a una riedizione di Oggi le comiche.

La solitudine fa brutti scherzi. Appunto, per il premier sul referendum Ci vorrebbe un amico, per dirlo con la canzone di Venditti, ma non lo trova. Ha tutti gli ex presidenti della Corte costituzionale contro (o quasi). E nel Pd la minoranza ha scelto proprio il referendum per fargli la pelle. Dopo le elezioni amministrative, specie se le cose andranno male, si apriranno le danze. Bersani si dedica sin d'ora ai distinguo: «Voterò Sì ma sono contro i plebisciti». Intanto i suoi cominciano a rivendicare, sia pure a mezza bocca, la possibilità di organizzare anche nel Pd dei comitati per il No. «Non voglio fare lo storico - ironizza Felice Casson - ma questo referendum ricorda quello sul divorzio: mezza Dc votò a favore non perché fossero diventati tutti divorzisti, ma perché non volevano più Fanfani segretario della Dc. Il problema è il caratteraccio dei toscani». E già, l'elenco dei nemici è davvero lungo. Se ci mettiamo anche la magistratura non la finiamo più. «Qui nel Palazzo - sussurra Enrico Buemi, un senatore critico della maggioranza, attento alle vicende giudiziarie - circolano voci di un altro sottosegretario molto vicino al premier che potrebbe finire nei guai».

Nel fronte del Sì, attorno al premier, si azzardano analisi, anche le più strampalate, per darsi coraggio. Dicono: magari i grillini potrebbero essere tentati di non impegnarsi troppo, visto che il «sistema renziano» - questa è la tesi - è il più agevole per aprire la strada del governo ai Cinque stelle. Un curiosa congettura, ma se la verifichi tra gli interessati, i pentastellati ti sparano addosso. «Per andare al governo - si indigna Stefano Lucidi - noi dovremmo accettare un sistema che è una mezza dittatura? Ma su!». «Senza contare - gli fa eco Sergio Puglia - che nello pseudo Senato che viene fuori, per come è eletto, tra sindaci, senatori a vita e governatori, noi non toccheremmo palla. Sarebbe in mano al Pd. E quel Senato ha i suoi poteri». Per non parlare della questione di fondo: «Questa riforma - sostiene Nicola Morra, appassionato di filosofia - è una svolta autoritaria che è l'esatto contrario del nostro sentire». Già, è difficile che una riforma benedetta da banche d'affari come JP Morgan, sostenuta dallo stesso schieramento che benedisse all'epoca il governo Monti, possa piacere a Grillo e ai seguaci della decrescita felice. Come pure sperare nel disimpegno o nelle divisioni del centrodestra sul referendum è una pia illusione dell'inner circle renziano. Ieri al Senato, nei banchi di Forza Italia, senatori come Bernini, Mandelli, Gibiino, Floris e Marin, ipotizzavano comitati spontanei per il No, magari con parlamentari leghisti e di Fratelli d'Italia, proprio per mettere al riparo la campagna sul referendum dagli strascichi delle polemiche nel centrodestra sulle elezioni a Roma.

Più che ragionamenti su fronte del No, quelli di Renzi e dei suoi sembrano quindi una sorta di un training autogeno per ostentare ottimismo in una situazione oggettivamente grave. «Matteo - spiega il sottosegretario Della Vedova, ex radicale che non può essere sicuramente tacciato di anti renzismo - per vincere dovrebbe portare alle urne almeno 12 milioni di italiani che votino Sì. Io che ho esperienza di referendum dico che è difficile, molto difficile». Sono tutte cose che il premier sa benissimo. Lui e i suoi rimasero costernati quando nel referendum sulle trivelle contarono il numero degli italiani che avevano votato contro il governo. «Qui se non stiamo attenti - disse in quell'occasione Renzi - ci rompiamo l'osso del collo». La stessa espressione preoccupata che ha usato con i suoi quando gli ha impartito l'ordine categorico di mobilitarsi per i comitati per il Sì.

Augusto Minzolini

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