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Se gli atleti di Salvini finiscono tra i rifugiati

Se gli atleti di Salvini finiscono tra i rifugiati

Chi sta dalla parte degli atleti? Non certo i politici. Non lo sono mai stati, tranne che per foto ricordo e un acchiappo di vanagloria. Certamente tutto quanto fa tribù dello sport: Coni compreso. Stavolta anche il Cio, sotto l'egida stil cardinalizia dei suoi presidenti. L'ultima brillante trovata governativa chiama a raccolta gli atleti e chi ama lo sport: si parla della controversa riforma che, secondo il Cio, intacca l'autonomia Coni e propone norme non aderenti ai principi della Carta Olimpica. Il Cio chiama il Coni (diretto interlocutore) e non altri a risponderne, ed è così preoccupato della situazione da aver inviato una seconda lettera al nostro comitato olimpico nella quale si invitano il presidente Malagò e i rappresentanti di governo ad un confronto a settembre, a Losanna, per trovare una soluzione comune. Il caso estremo dice che l'Italia potrebbe finire sotto la sigla dei rifugiati politici, cioè fuggiti da guerre e torture. Per Tokyo 2020 esiste già una squadra ufficiale dei rifugiati. Per l'Italia «Paese» sarebbe uno sfregio e la politica non avrebbe alibi.

Per ora esiste la concreta possibilità che la nostra nazione debba sfilare ai Giochi di Tokyo 2020 sotto una bandiera neutrale, privata dell'inno sul podio e senza nemmeno le squadre: gli individui singoli sono qualificati per meriti predeterminati dai risultati. Invece, le squadre ammesse vengono convocate, in quanto nazionale, da un ente nel caso impossibilitato a convocarle. Non è certo il Cio che determina la squadra di pallanuoto o della pallavolo rosa. Fors'anche i politici capiscono che tutto questo è uno schiaffo agli atleti, mai considerati nei loro interessi: lottano, si allenano, faticano (parolina magica per chi conosce sport e lavoro, non solo sport e salute), immaginano obiettivi, sognano successi e l'inno sul podio, la sfilata sotto la bandiera e tutto quanto fa Olimpiade. Stavolta ne sarebbero ripagati con il rischio di essere «Paese anonimo» o con una «non partecipazione». Gli atleti hanno la forza delle medaglie, di successi ed anche insuccessi che emozionano ugualmente. Hanno un seguito che qualunque governo vorrebbe. Per loro le Olimpiadi sono pure un affare economico, specie se vincono.

Nel 1980 il nostro governo decise di non inviare atleti delle Forze Armate ai Giochi di Mosca per seguire le linee del boicottaggio americano. Oggi ricordiamo i successi di Mennea e Simeoni, Oliva e Pollio, non chi restò escluso. Nel 1992 scomparve, per la guerra, la squadra olimpica della Jugoslavia: il Dream team del basket e il nostro Settebello, vincitori dell'oro, ringraziano ancora. La Russia è stata esclusa dai Giochi invernali di Pyeongchang per questioni di doping: ammessi sotto la sigla Ioa (Indipendent Olympic Athlets) solo atleti riconosciuti puliti. Per l'Italia non si parla di doping, ma di problema politico ed allora la sigla sarebbe: Rot (Refugee olympic team): una sorta di contrappasso per chi non ha in simpatia rifugiati ed emigrati. Prego, uno smile con risatina. Il problema riguarda anche giornalisti e presidenti federali: non verrebbero ammessi ai Giochi perché il Cio non riceve accrediti di Paesi non riconosciuti. Per i giornalisti sarebbe un danno professionale, invece non pagare viaggi ai dirigenti sarebbe un risparmio: l'unica positività di questa storiaccia. Finisce in «accia», fa rima con figuraccia.

Riccardo Signori

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