Cronache

Se la difesa è vietata perfino in tribunale

Se la difesa è vietata perfino in tribunale

Viene dato risalto mediatico ad una sentenza recentissima del Tribunale di Milano, sezione Famiglia, secondo cui costituisce «offesa alla giustizia» il contegno globale di una donna che, nell'ambito di una causa di separazione, avrebbe assunto comportamenti atti a screditare la figura del marito, al punto da procurare in capo alla figlia un'alleanza simbiotica con la madre in chiave anti-paterna, innescando il rifiuto di vederlo ed incontrarlo.

In sede di sentenza i giudici applicano, all'esito anche di una perizia che evidenzierebbe le spinte alienative della madre, la sanzione dell'«abuso del processo», raddoppiando le spese di lite cui viene condannata la donna.

La pronuncia è emblematica perché segna l'applicazione di uno specifico istituto, pensato per preservare la funzionalità del «sistema giustizia» in un ambito, quello familiare, dove l'esperienza insegna che nulla è come appare e dove l'arbitrarietà nelle decisioni è il rischio più grande.

Se è pur vero che le sentenze non si criticano ma si rispettano, non ci si può esimere dall'osservare come l'enunciato «abuso del processo» in casi così delicati possa sottendere ad uno stato emotivo del giudice visto che, come ha precisato Joseph Le Doux, neuroscienziato americano «una mente senza emozioni non è per nulla una mente».

Perché i giudici sono uomini, perché le sentenze vengono scritte spesso sotto il condizionamento dell'empatia stessa che i magistrati hanno verso le parti, perché nessun caso è uguale all'altro e perché ciascuna vicenda risente di letture interpretative difformi in base alla mentalità stessa dei giudici, alla loro sede territoriale, persino al rango (le Corti d'appello smentiscono i tribunali di prime cure e la Cassazione, a propria volta, tratteggia principi di volta in volta innovativi).

Quattro secoli fa il filosofo inglese John Locke sosteneva che ciascuno di noi prendesse decisioni muovendosi nel crepuscolo dell'incertezza, non dominando tutte le informazioni dello scibile cui aveva accesso solo Dio: ecco, è in questa penombra cognitiva che i giudici si muovono.

I processi di famiglia, poi, vivono l'ulteriore paradosso dell'accreditamento di pareri esterni, quali quelle di consulenti nominati d'ufficio o di servizi sociali, tutti portatori di altrettanto arbitrarie valutazioni.

In questo mare magnum dove non vi sono certezze la sanzione dell'«abuso di giurisdizione» rischia quindi di sfociare in un abuso all'incontrario.

Già è difficile attribuire ragioni o torti quando gli interessi in gioco affondano le radici nei delicatissimi rapporti interfamiliari, che spesso coinvolgono anche minori coinvolti nel confitto genitoriale, se però i giudici iniziano ad attribuirsi un potere sanzionatorio che va al di là del semplice responso sulle domande processuali delle parti, si scade nella «politica della giustizia», che non è giustizia.

Parafrasando l'ex presidente americano Lyndon Baines Johnson - secondo cui «il problema non è fare la cosa giusta. È sapere quale sia la cosa giusta» mi chiedo se quei giudici abbiano voluto circoscrivere la sanzione al caso di specie o piuttosto lanciare un segnale generale, un monito urbi et orbi per addomesticare i conflitti familiari entro un perimetro rassicurante in cui regni l'armonia anche nello sfacelo familiare.

Così purtroppo non è e lo sa bene chi si occupa di diritto di famiglia e fa della prudenza la prima chiave interpretativa di ogni caso con cui abbia a che fare.

La spada di Damocle della sanzione aggravata va invece al di là del bene e del male: un conto è quando si ha che fare con un credito certo che un debitore oppone in modo dilatorio solo per sfuggire all'obbligo di pagamento, altro è quando al magistrato si affida la propria vita e quella dei propri figli.

Come si può accusare di «offesa alla giurisdizione» o «oltraggio alla giustizia» l'approccio processuale di una parte che, nel quadro della tutela di diritti familiari personalissimi, si rivolge ai magistrati con fiducia, solo per invocare la protezione delle proprie prerogative e degli interessi dei figli coinvolti?

Il pericolo è un disincentivo non già delle condotte che i giudici suppongono sbagliate, ma del diritto stesso alla difesa, sancito dalla nostra Costituzione.

E l'alternativa quale sarebbe, secondo i magistrati? Il non far nulla? Il ricorso agli strumenti alternativi di risoluzione dei conflitti (che però nel caso del diritto di famiglia incontrano limiti e scontano le inefficienze della Pubblica amministrazione che non risponde al telefono o prospetta tempistiche incerte e lunghissime)? La canalizzazione delle domande giudiziali entro limiti di innaturale prudenza, per il timore di incontrare il rigetto e la sanzione dei giudici?

Non conosco il caso di specie e non escludo che quella madre sia così come la descrivono i giudici ed i consulenti, ma mi stupisce come manchi completamente uniformità.

Da un lato la Cassazione e i Tribunali enunciano la necessità di rispettare i sentimenti e le volontà dei minori, quando questi ultimi non intendono coltivare i rapporti con l'altro genitore, dall'altro tali pronunce vengono disattese e le condotte dei figli vengono rielaborate in chiave punitiva verso la madre (o il padre) che, in buona fede, li ha soltanto protetti mentre imperversa il conflitto.

Chi ha ragione quando vi sono Tribunali che leggono una norma in senso diametralmente opposto ad altri precedenti? Quando vi sono sentenze che smentiscono pronunce anche di rango superiore e che bilanciano interessi ora a favore di un principio, ora a favore dell'altro? È pertanto disarmante per il cittadino fronteggiare un siffatto sistema, un modello di (in)giustizia in cui ciascuno di noi rischia di vedere frustrati i diritti dei quali invoca tutela, venendo persino sanzionati per aver, con fiducia, adito la tutela giudiziaria.

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