Cronache

Quella sinistra ipocrita che predicava il lolitismo

Lo chiamavano "diritto alla sessualità infantile". Fu il culto della trasgressione. E l'inizio della fine

Quella sinistra ipocrita che predicava il lolitismo

Si chiamava «diritto alla sessualità infantile» e basta sfogliare i cataloghi editoriali dell'epoca, quelli «alternativi» e quelli «paludati», per capire che cosa intenda il Papa emerito Ratzinger quando accenna alla «fisionomia della Rivoluzione del Sessantotto» al cui interno la pedofilia «era diagnosticata come permessa e conveniente». Naturalmente la data è simbolica, perché il processo di secolarizzazione della società occidentale dura da almeno un paio di secoli e contempla l'eclissi del sacro, la scomparsa delle società tradizionali, l'atomismo sociale e la deificazione dell'individuo. Ciò che però emerge dalle parole di Benedetto XVI è una riflessione sulla cosiddetta «cultura della trasgressione», che è poi quella che nella seconda metà del Novecento si è definitivamente imposta, trasformando in fenomeno di massa ciò che a lungo era stato un fenomeno di minoranza, nell'arte come nella letteratura, nel costume come nelle relazioni sociali.

Che questa «cultura della trasgressione» dovesse a un certo punto fare della sessualità il suo campo preferito d'azione è perfettamente comprensibile se si dà uno sguardo a ciò che nel XX secolo le rivoluzioni avevano lasciato alle loro spalle, massacri, fallimenti, burocratizzazione del terrore. Potevano funzionare come richiamo al di fuori dell'Occidente, il cosiddetto Terzo mondo che non aveva ancora conosciuto «la necessità storica» e «la dialettica della storia», come pontificavano i nipotini intellettuali degli Immortali principi dell'89 coniugati all'insegna del materialismo scientifico.

Nel Vecchio continente, però, c'erano state due «guerre civili», divenute due guerre mondiali, un'Europa spaccata a metà dalla «cortina di ferro», un appeal rivoluzionario seppellito nei gulag e a cui la società dei consumi dava il colpo definitivo nel campo della questione sociale. In Italia, nella Germania dell'Ovest, in Francia, ci si industriò a combattere il capitalismo di nome vivendo e godendo però il capitalismo di fatto, un marxismo alla amatriciana, a birra e salsicce, alla bouillabaisse, teorico e non pratico, chiacchiere e distintivi, insomma.

Del resto, la sua scientificità prevedeva il crollo dell'odiato nemico per le contraddizioni insite nel suo stesso sviluppo... Bastava aspettare e, si sa, l'estremismo è la malattia infantile del comunismo e i suoi adepti «compagni che sbagliano» a cui dedicare un affetto partecipe, ma distratto e senza esagerare...

In due saggi mirabili, Sulla rivoluzione e Sulla violenza, Hannah Arendt ha spiegato benissimo come la Rivoluzione francese abbia lasciato in eredità ai secoli successivi l'idea salvifica del primo concetto, la liceità, a esso connessa, del secondo. Trasportato dalla politica alle idee, questo binomio si è imposto nel campo del pensiero, dove la tabula rasa di ciò che c'era prima si accompagnava all'estremismo verbale con cui veniva veicolata.

La rivoluzione sessuale ne è il suo logico coronamento, il cavallo di Troia con cui si distruggevano da un lato codificazioni morali e legislative, e dall'altro si dava alla borghesia radicale, quanto conformista sedotta dallo Spirito del Tempo, il contentino-surrogato di una rivoluzione individuale, non essendo possibile quella epocale legata a rapporti di produzione.

Deriva da ciò la permissività più totale e, insieme, più intransigente, il relativismo assoluto dei valori e la teorizzazione del diritto al proprio piacere in quanto tale, il «vietato vietare» di una filosofia da scannatoio.

Curiosamente, ciò che nel passato era stata una certa «virtù» rivoluzionaria, un modello stoico di incorruttibilità sia pubblica sia privata, si trasformavano nel suo esatto opposto, l'edonismo libertino come fine ultimo, la rivincita di de Sade su Saint-Just, degno epitaffio di un'epoca senza più dignità.

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