Cronache

Stramba idea di Severgnini: ""Ai profughi terre incolte in Sardegna e Abruzzo"

Il giornalista attacca dalle colonne del Nyt: "Facciamo come gli antichi Romani: ripopoliamo le zone abbandonate con nuovi contadini e artigiani". E se i migranti non volessero?

Stramba idea di Severgnini: ""Ai profughi terre incolte in Sardegna e Abruzzo"

Riallocare i migranti nei territori disabitati della Sardegna, dell'Abruzzo e del Molise. La bizzarra proposta arriva da Beppe Severgnini, che lancia il sasso nello stagno da oltreoceano e precisamente dalle colonne del New York Times.

Il giornalista di Crema, per supportare la propria tesi, si rifà addirittura alla tradizione degli antichi Romani. Che, spiega ecumenicamente ai lettori statunitensi, utilizzavano il sistema della cosidetta centuriatio: la pratica cioè di organizzare il terreno agriucolo in appezzamenti regolari da assegnare a ex soldati per la colonizzazione del territorio.

Severgnini fa l'esempio dell'imperatore Settimio Severo, che concedeva appezzamenti di terreno incolto o abbandonato ai propri ex legionari per far sì che "non si abbandonassero alla pigrizia". Il passo successivo è breve: perché non fare altrettanto con i migranti? Certo, riconosce l'editorialista del Times, essi non hanno combattuto per l'Italia, ma hanno "le giuste capacità".

Potrebbero integrarsi nelle società rurali del centro Italia e della Sardegna, in quei villaggi che vanno spopolandosi anno dopo anno. Potrebbero prendersi cura del territorio e imparare dagli indigeni i mestieri della tradizione. Le differenze culturali, si dice ottimisticamente, verrebbero superate senza troppe difficoltà: d'altronde in Italia meridionale ci sono ancora comunità che parlano greco ed albanese.

Il giornalista si spinge ancora più in là, suggerendo che in Italia potrebbero restare i contadini e gli artigiani, mentre i migranti con un livello di istruzione superiore vorrebbero perlopiù proseguire verso la Germania o la Scandinavia. Verissimo, nella maggior parte dei casi. Ma non è tutto: provate a chiedere a un qualsiasi migrante se vuole trasferirsi in un villaggio alle pendici del Gennargentu, magari distante decine di chilometri dalla prima città. Provate a chiedere alla popolazione di un paese che giace all'ombra della Majella, che succederebbe se il numero degli abitanti venisse raddoppiato da un giorno all'altro.

Non credo che le reazioni sarebbero molto migliori di quelle di un gruppo di migranti iracheni e siriani che, la settimana scorsa, si sono rifiutati di scendere dal pullman che li aveva portati in uno sperduto villaggio svedese abbandonato tra i boschi e lontano da tutto. Fa freddo ed è isolato, dicevano.

E in Svezia, giova ricordarlo, c'è il welfare svedese. Perché mai, caro Severgnini, i migranti dovrebbero voler stabilirsi in quelle zone che gli stessi italiani - che di guerre sul proprio territorio, grazie a Dio, non ne vedono da un pezzo - hanno abbandonato? Essi hanno sogni e aspettative molto differenti da quelle che può suggerirci la nostra pur gradevole utopia ruralista. Chi sogna il ritorno alla vita campestre, lo sogna nella propria terra; chi vuol cambiare vita, fantastica delle luci di Berlino - ed è difficile dargli torto.

Che poi queste fantasie non rispondano a verità, è un altro paio di maniche. Siamo stati noi europei, in gran parte, ad alimentare queste utopie. Cerchiamo almeno di non fare altrettanto con i nostri lettori.

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