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Sud, un errore lungo 70 anni

Sud, un errore lungo 70 anni

L a Romania non è considerata di solito un modello di gestione dell’economia. Ma vista dal Meridione d’Italia la prospettiva può essere diversa. Nel 2017 il reddito pro capite dei rumeni ha uguagliato quello del Mezzogiorno e dato il tasso di crescita di Bucarest e dintorni, il silenzioso sorpasso è avvenuto nel corso del 2018. Dalla Lettonia alla Slovacchia, i Paesi ex comunisti che hanno aderito alla Ue, con l’eccezione della Bulgaria, sono, a parità di potere d’acquisto, ormai più ricchi, e in qualche caso di parecchio, dell’Italia meridionale (vedi anche il grafico in queste pagine). Andrea Giuricin, docente alla Bicocca di Milano, ha commentato con un tweet di malinconica ironia: «Tra un po' vedremo grandi flussi di immigrati dal Sud Italia verso i Paesi dell'Est Europa? Orban li respingerà?». La più grande regione sottosviluppata dell’Europa occidentale, l’area che va dalla Campania alle Isole, consolida anno dopo anno il suo poco lusinghiero primato. Ed è difficile spiegare il perchè. Riccardo Faini, uno dei più grandi esperti di problemi dello sviluppo, morto qualche anno fa, parlò a suo tempo di «una lunga serie di enigmi irrisolti». PROGRAMMI FALLITI L’unica cosa sicura è che le medicine fin qui somministrate al paziente non hanno funzionato. Le differenze di reddito tra Nord e Sud sono diminuite in maniera significativa solo tra gli anni 50 e la metà degli anni 70, ai tempi della costruzione delle grandi infrastrutture e dell’industrializzazione condotta a tappe forzate dai gruppi pubblici. Poi, fatte le strade e andato in crisi il modello delle cattedrali nel deserto ad alto consumo di energia, il gap è tornato a crescere. Negli ultimi 30 anni, chiusa la Cassa del Mezzogiorno nel 1992, gli interventi straordinari hanno assunto le forme e i nomi più diversi: contratti di programma, contratti d’area, patti territoriali, senza parlare della legge numero 488 del 1992 e dei fondi strutturali europei. Due economisti della Banca d’Italia, Antonio Accetturo e Guido De Blasio, si sono presi la briga di esaminarli tutti e di costruire dei modelli econometrici per valutarne i risultati. In un pamphlet appena pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni («Morire di aiuti»), hanno sintetizzato il giudizio: le forme di sostegno via via applicate in Italia non sono servite praticamente a nulla. Un buon esempio è quello dei contratti di programma, avviati nel 1986: qui a intervenire di solito è il governo, che concorda con un azienda privata (l’esempio più noto è quello della Fiat di Melfi) la localizzazione di nuovi impianti, le condizioni di insediamento, e la compensazione finanziaria. Per valutare gli interventi di questo tipo (fino al 2010 avevano coinvolto 413 comuni del Sud) sono state selezionate aree di controllo il più possibile simili a quelle in cui è stato avviato l’impianto industriale. Nel tempo le differenze si sono rivelate poco significative. E gran parte della maggiore crescita è avvenuta a scapito delle aree vicine a quelle interessate dal Contratto, con un effetto «spiazzamento», dicono i due economisti, tipico di quando si attuano programmi di sostegno rivolti ad aree limitate. Qualche effetto degli incentivi pubblici, a dir la verità, sembra esserci stato. Purtroppo non positivo. Accetturo e De Blasio si sono chiesti se è un caso che nel Sud la criminalità organizzata sia più forte e il cosiddetto capitale sociale (l’insieme di valori di fiducia e di capacità cooperativa che fanno da lubrificante dell’economia) più debole. Anche in questo caso hanno confrontato aree simili tra loro: zone il cui reddito è appena superiore al 75% di quello medio europeo, con zone in cui in cui il reddito è di poco inferiore. La cifra è uno spartiacque importante: chi guadagna di meno riceve gli aiuti europei, chi di più resta a mani vuote. Il risultato è che i sussidi «hanno avuto un effetto negativo sulle dotazioni di fiducia e correttezza tra individui». Non solo. I due autori hanno incrociato i dati finanziari con le banche dati su reati e delinquenza, concludendo che «esiste una correlazione tra i fondi strutturali che un comune riceve e gli episodi di corruzione». Quello che accade nella pratica è del tutto intuitivo: la poggia di soldi che arriva da lontano contribuisce non tanto al rafforzamento di una moderna classe imprenditoriale, quanto alla formazione di un ceto di «cercatori di rendita», professionisti del sussidio e della negoziazione, trasparente o meno, con gli enti pubblici. CONTA LA QUALITÀ Confrontando il caso italiano con gli esempi stranieri gli economisti di Bankitalia arrivano alla conclusione che l’efficacia dei finanziamenti e la riduzione dei loro effetti distorsivi dipendono da alcune pre-condizioni: «i risultati positivi paiono trainati da un pugno di regioni ben amministrate e con una forza-lavoro istruita. Le altre sembrano arrancare». La conclusione è perfettamente in linea con le tesi oggi prevalenti tra gli studiosi: per lo sviluppo servono capitale umano e qualità delle istituzioni. Ma come si misura la qualità delle istituzioni? E come è messa l’Italia? Per arrivare a una risposta viene utilizzato un indice messo a punto dall’Università di Göteborg, Quality of Government, che misura nelle regioni dei 27 Paesi della Ue l’intreccio tra attività pubblica e qualità di servizi come istruzione, sanità, giustizia. Il risultato? Sconfortante. Tra i Paesi dell’euro l’Italia è quasi sempre penultima battendo solo la Grecia. La distanza tra la Regione più efficiente e meno efficiente d’Italia è doppia rispetto agli altri Paesi, anche di quelli che presentano l’eterogeneità maggiore. Ma nel caso italiano la distanza tra i primi e gli ultimi è un po’ un’illusione ottica, perchè in testa, lontanissime dal resto del gruppo, ci sono solo Trento e Bolzano. Se si tolgono loro due, perfino le rimanenti aree del Nord sono «meno efficienti rispetto alle peggiori Regioni di Spagna, Francia e Germania», spiegano Accetturo e De Blasio, che concludono: «La bassa qualità delle istituzioni è quindi un problema italiano, da Milano a Palermo (ma come sempre più accentuato nel Sud)» ADDIO COMPETENZE Resta da valutare la qualità e il livello del capitale umano. Secondo gli autori di «Morire di aiuti», anche qui non sono rose e fiori. L’espansione dell’offerta universitaria degli anni 90 ha contribuito alle iscrizioni di studenti meno brillanti, e questi ultimi, in assenza di forti incentivi al conseguimento di un titolo superiore, hanno fatto salire il tasso di abbandono: «l’accumulazione del capitale umano è di fatto rimasta stabile». Nel Sud poi la «dissipazione di competenze» è un problema serio: molti tra gli studenti più brillanti si iscrivono direttamente alle università del Nord, considerate migliori sia al punto di vista della didattica sia da quello della ricerca scientifica. E molti tra i laureati in atenei meridionali trovano le offerte più interessanti al Nord. Più o meno le stesse cose le ha di recente spiegate al Sole 24 Ore Marc Lemaitre, responsabile delle Politiche Regionali della Commissione Europea. L’intervistatore, Giuseppe Chiellino, gli ha chiesto come mai la Polonia e il Mezzogiorno, destinatarie di aiuti europei in misura tutto sommato analoga (239 all’anno per un polacco contro i 200 di un residente nel Meridione), avessero tassi di crescita così diversi tra loro: nel 2018 il 5,1% in Polonia e lo 0,6 nel Sud. Nella prima risposta Lemaitre ha parlato di salari: «Il Sud è parte di un sistema Paese più sviluppato, con un costo del lavoro molto più alto che diventa un problema serio quando si fa il confronto in termini di produttività». Poi ha citato gli aspetti a prima vista meno tangibili. «La Polonia ha un sistema educativo di alta qualità, mentre l’Italia ha molte debolezze». Infine il tema della qualità dell’amministrazione: «Per capirci», ha detto Le Maitre, in Polonia i progetti e gli appalti vanno avanti a passo spedito, al contrario di quanto avviene in Italia e nel Mezzogiorno».

Sarebbe ora di prenderne buona nota.

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