Controcultura

La telefonata e lo sparo: ho perso un amico

La telefonata e lo sparo: ho perso un amico

Sono a Gorizia per parlare di un tema universale, la «Sacra famiglia nell'arte». Immediatamente prima di parlare mi arriva la telefonata: l'amico (il filosofo, lo scrittore, il traduttore, l'agente letterario, il fratello) Sergio Claudio Perroni è morto. No, non è morto, il pensiero degli uomini non muore. Una sua pièce teatrale porta il titolo: Non muore nessuno. Nel caso suo, la morte è un atto estremo di vita. Perché cercata, coltivata, vagheggiata. Perroni si è ucciso. E senza vergogna. Non nel chiuso di una stanza, ma davanti al più rinomato simbolo di Taormina dove, nel luogo più vicino agli dèi, viveva. In prossimità del San Domenico, il convento trasformato in albergo agli inizi del secolo scorso.

Lì si è tolto la vita. O forse ha iniziato a entrare più profondamente nella nostra. Il suicidio non era per lui un atto estraneo. Sono certo che lo ha inteso ed eseguito negli stessi termini e con lo stesso orgoglio di Mishima: «Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per essere sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro». Nessuno conosceva meglio di Perroni la vita e la morte (della vita e per la vita) di Mishima. Lo scrittore giapponese, da sempre ossessionato dall'idea (...)

(...) della morte, coniuga il suo disagio esistenziale ed estetico con l'ideale politico di un patriottismo tradizionalista.

Perroni, dall'aldilà da cui ci vede avrebbe condiviso questo collegamento al suo destino, pure reso impossibile nei nostri tempi senza eroi. E io mi auguro che egli abbia consegnato al suo editore (mia sorella: La nave di Teseo) la sua opera estrema, come fece Mishima con l'ultima parte della sua antinomica tetralogia Il mare della fertilità. Anche Perroni, uscito la mattina di sabato per andare incontro all'appuntamento con la morte, nel luogo più simbolico della sua città ideale, non può essersene andato senza lasciare una pista che ci accompagni verso la sua nuova vita. A contrastare il gesto estremo Mishima scrisse quello che sicuramente Perroni ha pensato: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». Uomini forti (e insieme fragili), entrambi, con un altissimo orgoglio patriottico, quello che si trova soltanto in certe personalità di destra, con una visione eroica della difesa di altissimi valori tradizionali. Mishima fu fondatore di un'organizzazione paramilitare, l'Associazione degli scudi, per la salvaguardia dello spirito tradizionale giapponese e difensore dell'Imperatore. Fascista? Precursore di CasaPound? Indegno di essere presentato al Salone del libro di Torino? Non ho fatto in tempo a parlare di questo con Perroni, ma sono certo che avrebbe giudicato con disprezzo l'atteggiamento di chi, come Carlo Ginzburg, ha voluto cacciare un libro o un editore in nome di un prepotente e schiacciante antifascismo. «Io sono fascista» è una dichiarazione di isolamento. Niente di più, oggi. E tante volte io l'ho sentita da Perroni, autore colto, sofisticato e sensibile.

Non ci siamo visti a Torino, e non ci sentivamo da qualche mese, ma lui era costantemente nella mia vita, leggendo e rileggendo i miei libri, dopo essere stato editore in tempi lontani di un testo Vedere le parole, in cui io raccontavo il linguaggio dell'arte da Giorgio Vasari a Roberto Longhi. Lo conobbi trent'anni fa, fine anni Ottanta, e lavorò fino al 1992 come mio agente letterario e non solo, con formidabile determinazione e caparbietà, com'era nel suo carattere. Poi ci fu lo scontro, tutto tecnico, nella definizione del confine tra azione dell'agente e libertà dell'autore. Così, lontano da me, iniziò la sua autonoma avventura come traduttore, editor e scrittore, facendosi agente, per conto di mia sorella nella casa editrice Bompiani, di Gesualdo Bufalino. Non furono frequentissime le occasioni di incontro da allora, ma tali da scandire momenti importanti delle nostre irriverenti riflessioni sul mondo, un mondo scomodo e ingrato, ma che Perroni ha sempre affrontato con spirito eroico, l'unico che gli era proprio. Duro, inflessibile, severo con gli altri, e prima di tutto con se stesso.

Un'opera straordinaria, la Cleopatra di Artemisia Gentileschi - il racconto di un suicidio esemplare - sigilla il mio rapporto con Sergio Perroni. Molti anni fa, sul finire degli anni '80, me lo mostrò. Perroni era di buona famiglia: suo padre, che aveva un'industria che produceva acqua minerale aveva pensato, forse negli anni '50 o '60, di comprare opere d'arte, e aveva acquistato il dipinto sul quale la critica aveva indicato un autore sbagliato. Eppure la critica, in quel caso, era Roberto Longhi, cioè il primo storico dell'arte italiano, che nessuno di noi ha superato, ed è stato capace di vedere oltre quello che un'opera ti dice, cercando di capirne le ragioni più misteriose. E aveva messo, nella sua Fondazione a Firenze, la fotografia di questo dipinto nella cartella di Guido Cagnacci. Io incrociai Perroni. Mi disse: «Guarda, vorrei vendere questo dipinto»; io gli risposi: «E io vorrei comprarlo». E, quindi, trattai con lui la Cleopatra che, immediatamente dopo il mio acquisto, e non solo per mio merito, divenne quello che è: Artemisia Gentileschi. Cleopatra non è un quadro, è un quadro drammatico: nel momento in cui Cleopatra sente che la bellezza se ne sta andando, che perde la sua forma, non vuole essere ricordata altro che per quello che è stata. Quindi si uccide per non perdere la ragione della sua vita. Così ho interpretato il dipinto...

Ho pensato che ricordare Perroni era non soltanto, per quelli che non lo hanno, un dolore che prende me e può prendere voi; ma anche la coincidenza di una scintilla che ci ha unito nell'arte, e che ha trasmesso da lui a me un capolavoro della pittura del Seicento.

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