Cronache

Strage del rapido 904, ecco la giustizia che piace ai boss

Strage del rapido 904, ecco la giustizia che piace ai boss

La giustizia italiana è un manicomio. È normale un paese dove si indaga e si processa per fatti accaduti trentatré anni prima? Non sono bastati tre decenni per giungere a una verità giudiziaria definitiva sull'attentato del rapido 904, il treno partito da Napoli con destinazione Milano sul quale il 23 dicembre 1984 fu fatto esplodere un ordigno all'altezza della galleria di San Benedetto val di Sambro sull'Appennino tosco-emiliano. Sedici morti e 267 feriti, il bollettino di morte. Da allora si avviò un iter giudiziario a dir poco tortuoso ma non senza colpevoli, dal momento che quattro mafiosi sono stati condannati con sentenze passate in giudicato. Il coinvolgimento di Totò Riina è il «colpo di teatro» più recente, risale al 2011 quando il gip di Napoli, su richiesta della Dda, emette un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell'ex «capo dei capi» ritenuto il mandante della strage (i cui esecutori, come si è detto, sono stati condannati in processi ormai chiusi). Secondo l'ipotesi accusatoria, Riina avrebbe ordinato la strage, realizzata con l'esplosivo dello stesso tipo di quello adoperato negli attentati dell'Addaura e di via D'Amelio, come risposta al maxiprocesso a Cosa nostra.

Nel 2015 il tribunale di Firenze, territorialmente competente, assolve Riina per mancanza di prove. Ma la procura ricorre in appello. Adesso si scopre che il processo di secondo grado dovrà ripartire da capo poiché il presidente della corte Salvatore Giardina andrà in pensione agli inizi di ottobre. Stavolta il magistrato non ha alcuna responsabilità, si applica la legge. In particolare, come previsto dalle recenti modifiche apportate all'articolo 603 del Codice di procedura penale, tutti i testimoni sentiti in primo grado dovranno essere riascoltati essendo il giudice obbligato, nel caso di appello del pm contro una sentenza di proscioglimento, alla riapertura completa dell'istruttoria. Dal ministero di via Arenula fanno sapere che «la necessità di rinnovare il dibattimento in caso di appello del pm contro una sentenza fondata su prove testimoniali discende da una consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, ampiamente recepita dalla Cassazione già prima della modifica legislativa dello scorso luglio che ha semplicemente adeguato la formulazione della norma».

Tuttavia, se al posto del ritocchino normativo il governo avesse introdotto il principio del ne bis in idem, in uso nell'ordinamento statunitense e non solo, secondo il quale chi è assolto non può essere processato una seconda volta per i medesimi fatti, non staremmo qui a disquisire di una strage accaduta oltre trent'anni fa, che ha già avuto i suoi condannati e oggigiorno riapre antiche ferite come in un macabro amarcord.

Invece il pluriergastolano 87enne Riina, che a causa della sua infermità sconta il 41bis tra carcere e ospedale a Parma, continua a fare notizia per un processo che arriverà a sentenza chissà quando e che potrebbe vederlo di nuovo assolto.

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