Cronache

Twitter si scusi per l'Isis, non per Trump

Le scuse (inutili) di Twitter & Co.

Twitter si scusi per l'Isis, non per Trump

Ci voleva Trump perché i big della rete si accorgessero che il web è diventato un Far West nel quale ognuno può sparare le prime cavolate che gli passano per la testa. Ci voleva Trump. Presidente bizzarro sì, ma democraticamente eletto dal popolo americano. Non bastavano i video di ragazzi bullizzati, i ricatti sessuali, le violenze private sbandierate pubblicamente, i filmati di sgozzamenti, i tutorial per sbudellare gli «infedeli» e i milioni di link che rimandano a pratiche e manuali di terrorismo. Evidentemente non erano abbastanza per vellicare le anime belle della Silicon Valley. Riavvolgiamo il nastro. Ieri sul New York Times Evan Williams, cofondatore di Twitter, si batte pubblicamente il petto: se Trump ha vinto grazie al mio social network, chiedo scusa. Per poi chiosare amaramente che internet è guasto, non funziona più, è morto (ma va!). Un luogo virtuale pieno di imbecilli reali. Parzialmente vero. Così com'è innegabile che se entriamo in un qualunque bar del mondo possiamo trovare una simile quantità di cretini. Perché la rete è divenuta la mimesi - a tratti caricatura - del mondo reale, un'appendice della quotidianità, un arto ormai non amputabile del nostro corpo. Certo, i padri fondatori di tutte le reti del mondo, pensavano di creare un paradiso digitale che unisse tutto il mondo nel nome della comunicazione e della fratellanza universale. Un bel sogno cyberhippy fatto di bit e innaffiato con Lsd. Ma soltanto un sogno, appunto. Dal quale i signori del web sembrano essersi svegliati tardivamente. E con il piede sbagliato.

Riportiamo la questione alle nostre latitudini. Perché il problema del web non è solo un cruccio per filosofi attorcigliati alle loro riflessioni. Pochi giorni fa tre agenti sono stati aggrediti alle otto di sera alla stazione centrale di Milano. L'aggressore, come è noto, era un italiano di origini tunisine, noto alle forze dell'ordine e probabilmente all'inizio di un percorso di radicalizzazione islamica. Lo dimostrerebbe anche un video, preso da YouTube e pubblicato su Facebook dal ragazzo lo scorso 24 settembre, con in calce un commento che lascia poco spazio all'immaginazione: «Il miglior inno dell'Isis». Ora, com'è possibile che un soggetto sotto la lente delle forze dell'ordine lasci tracce così visibili di radicalizzazione senza che nessuno se ne accorga? Ma, soprattutto, come è possibile che né Facebook né YouTube segnalino e rimuovano questi contenuti? Il profilo del ragazzo è stato chiuso il giorno del suo arresto, ma il video dell'inno al Califfato è ancora lì che galleggia nell'oceano della rete, insieme ad altre migliaia di filmati prodotti dai seguaci della bandiera nera. Invece il problema è Trump. Forse i signori della rete così occhiuti nel controllo e nella censura del politicamente scorretto, dovrebbero cercare anche di impedire alle truppe dell'Isis di imperversare sulle loro autostrade digitali. Perché tutto quello che è virtuale, prima o poi diventa reale.

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