Cultura e Spettacoli

"Barbara, nostro inviato nel cuore dei soldati"

La giornalista Barbara Schiavulli, nel libro La guerra dentro, racconta l'esperienza dei soldati italiani impegnati sui fronti più caldi

"Barbara, nostro inviato nel cuore dei soldati"

La guerra. Un verme che entra dentro e non esce più. A volte divora l’anima e il cervello. A volte si sveglia la notte. Con i suoi odori, i suoi orrori. A volte è un ospite discreto. Si siede in un angolo della tua anima e resta a guardarti. La osservi, la studi. Sembra innocente, eppure vive con te. Addomesticata, ma non estranea convive con i tuoi pensieri, con i tuoi gesti, con la tua vita di ogni giorno. Anche quando pensi di averla scacciata, dimenticata, abbandonata. “La guerra dentro”, ultimo libro dell’inviata Barbara Schiavulli è anche questo. E’ soprattutto questo. E’ un viaggio in quei termitai impenetrabili che la guerra disegna negli animi e nelle menti dei reduci. Non è roba nuova. Per capirlo basta leggere Giuseppe Ungaretti, il suo urlo spaventoso mentre a Parigi durante una licenza dopo mesi di fronte racconta “sono aggiogato alla guerra …E mi attacco alla vita con disperazione”. O quando a Cima Quattro il 5 agosto 1916 scrive “La morte si sconta vivendo”. Ma Ungaretti è il poeta. Barbara è la giornalista, l’inviata nel cuore dei nostri soldati di oggi, di quelle migliaia di italiani sopravvissuti alle operazioni in Iraq e Afghanistan, Libano, Bosnia, Kosovo e di tutte quelle missioni che una propaganda benevola liquida come missioni di pace. Missioni da cui sono tornati accompagnati da quel piccolo parassita quell’ospite silenzioso infilatosi dei loro cuori. Lo scoprono, lo riconoscono, a volte, le mogli e i mariti, i fidanzati e le amanti, i figli e i genitori dei reduci. E’ un sorriso silenzioso, un urlo a stento trattenuto, un mutismo che a tratti inquieta. In quei piccoli segnali spesso impercettibili si nascondono gli orrori del fronte, le sue immagini, i suoi ricordi.
“Squilla il telefono, è la morte che chiama - annota Barbara mentre racconta esperienze ed emozioni del luogotenente Michele Olmetto. Non è un reduce come gli altri. S’è arruolato a 16 anni inseguendo il sogno di diventare artificiere. Da allora, bomba dopo bomba, ne ha compiuti 52, s’è conquistato la pensione. C’è arrivato intero, ma s’è lasciato dietro tanti, troppi “fratelli”. “Il telefono che squilla – racconta Michele - è quello della base in Iraq o in Afghanistan dove ti chiamano per andare a disinnescare un ordigno inesploso o peggio un ordigno posizionato per uccidere. E’ come se accadesse qualcosa, come se tutto il tuo corpo si preparasse, tu pensi solo a quello che devi fare, mentre l’adrenalina sostituisce il sangue. Si controllano le pulsazioni, ci si mantiene calmi, qualcuno è così di natura, qualcun altro impara. E deve farlo in fretta. Non si sbaglia mai due volte in questo mestiere”.


A volte non serve sbagliare. Basta esserci. Il 30 maggio 2011 è il turno del capitano Gennaro Masino. Quel giorno il capitano è nel suo ufficio al Prt (Provincial Reconstruction Team) l’edificio nel cuore di Herat dove i militari italiani coordinano gli aiuti alle popolazione afghana. L’attacco talebano scatta all’improvviso. Quando l’autobomba esplode e la base s’affloscia come un castello di carte lui non fa neppure a tempo ad alzarsi dalla scrivania. Resta lì prigioniero di fumo e macerie.
“Ho ripreso conoscenza, avevo solo le braccia libere – ricorda Gennaro- ho pensato che la situazione fosse grave. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a togliermi i massi da sopra. Ero in trappola”. Giuseppe è sopravvissuto, ma non è più quello d’allora. “Non è più il ragazzo spensierato di prima” – racconta Barbara nel suo libro. “Basta il tuono di un’esplosione perché tutto cambi, la confusione delle schegge che volano, mette in disordine anche la propria vita. O forse ti fa capire. O forse devi andare davvero vicino alla morte, darle una carezza e poi mandarla via, per sapere il tipo di persona che vuoi essere per il tempo che ti resta”.


Al fronte, negli antri bui delle missioni di pace si nascondono anche le ferite e le morti degli altri. Ferite e morti che incidono, scolpiscono anche l’anima di chi suo malgrado li comandava. Barbara lo racconta interpretando silenzi, smorfie e rughe del generale della Folgore Carmine Masiello. In Afghanistan nel 2011 comandava 4mila uomini. Quattro di loro non sono tornati. Continuano ad accompagnarlo come fantasmi immobili. Lievitano silenziosi nell’oscurità sudata dei risvegli notturni, si muovono tremolanti in quel sipario inestricabile chiamato responsabilità. “Ci sono cose che non si vorrebbero fare mai. Il corpo si ribella. Va tutto bene fino a che non arriva questo momento. Non si dorme la notte pensando a come evitarlo. Ma a volte semplicemente succede. Quando vivi abbracciato alla morte, prima o poi, ti tocca. Daresti un pezzo del tuo corpo per non fare quella telefonata, per non pronunciare quelle parole. Prima ancora, avresti voluto inchiodare la porta per non far entrare l’ufficiale che sta per dirti che qualcosa è andato storto. E’ qualcosa di più di una sciocchezza andata male. ….. Non vorresti sapere. Ti passi una mano sulla testa, distendi la schiena sulla sedia nera dietro alla grande scrivania. E respiri. Tutta l’aria trattenuta dagli uomini della base, degli avamposti, di quelli che stanno in giro e di quelli che trascorrono un momento di pausa sembra che tu gliela stia portando via. Ma hai bisogno di quel lungo respiro. Hai trascorso tutta la vita lavorando, addestrandoti per essere pronto.

Ma alla morte non si arriva mai preparati, neanche per quella di un altro”.

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