Cultura e Spettacoli

Da Carver a Williams così nasce un "caso"

Bestseller, scoperte, riscoperte: la caccia al libro "di cui tutti parleranno" è sempre aperta. E se poi è una bufala, amen...

Da Carver a Williams così nasce un "caso"

Trovare il caso letterario, l'ossessione degli editori. I quali da anni settimanalmente indicono riunioni apposite: «Allora, avete un caso letterario?». Il concetto di caso letterario ha almeno due casistiche del caso: nella prima semplicemente un romanzo diventa un successo commerciale, e siccome la critica in Italia non esiste più, diventa anche un caso letterario in senso universale. Esempio ormai da antologia: Faletti fu incoronato «più grande scrittore italiano» col faccione sulla prima pagina di Sette del Corriere della Sera, neppure Alberto Arbasino o Aldo Busi avevano mai sperato tanto, in fondo erano scrittori, non casi letterari. Il paradigma chic per antonomasia è Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, quello trash i pantaloni di Lara Cardella, quello nobilitato sociologicamente Porci con le ali di Lidia Ravera. Secondo caso del caso letterario: si ripubblica un più o meno grande autore sconosciuto, o conosciuto ma di insuccesso, sperando diventi non si sa perché un successo. In genere per ragioni extraletterarie, di restyling grafico, di botta di culo. Si noti: il caso letterario è sempre legato alla riuscita commerciale, altrimenti al massimo diventa «un autore di culto», per ogni editore una perdita. Tranne per Adelphi, Adelphi non perde mai anche quando non vende. Tipo Guido Morselli. L'hai letto? No? Sei out. Quanto a Adelphi, se vuole va in classifica con la Zia Mame di Patrick Denis e pare comunque letteratura altissima.

In ogni caso, sempre all'interno di questa seconda tipologia di caso letterario: Raymond Carver era già storicizzato e pubblicato da Garzanti quando lo scoprì minimumfax, divenne un caso letterario grazie a copertine coloratissime e pop. Una minestra riscaldata ma servita meglio, user friendly, in piatti di plastica. Elido Fazi, il rivale overground di Marco Cassini, non poteva accontentarsi di Melissa P e di Bin Laden, e dovette dare altro che cento colpi di spazzola alla sua redazione per trovare un caso letterario serio. Purtroppo lo trovò, così esplose l'asfissiante moda di John Fante e dei fan di Fante, i fantini, peggio ancora dei carverini. Una volta Fazi mi disse di avere per le mani degli irlandesi «meglio di Joyce, perché Joyce è sopravvalutato», e pronunciava Joyce con una smorfia di disgusto, come se fosse Raffaele Avanzini della Newton Compton. Il quale di solito non fa neppure finta di non guardare solo al soldo. Infatti contrattaccò con il caso letterario dei vampiri di Lisa Jane Smith e sicuramente pensò: strike. Non era letteratura? Pensò: stikazzi. In seguito però ha pubblicato una nuova traduzione dell'Ulisse, tutta colorata stile minimum, per vedere se gli riusciva di rilanciare l'Ulisse come un caso letterario e fare dispetto a Fazi. Avanzini, tra parentesi e tra Parente, è quello che un giorno mi disse: «Joyce? Mica è letteratura, a' letteratura è Faletti, a' letteratura deve vende'». Pronunciando Joyce con una smorfia schifata, come se fossi Fazi. Infine l'ultimo caso letterario fresco fresco è di nuovo targato Fazi, si chiama John Williams. Non è John Fante ma è un John e è pure più fantino di Fante: un americano duro e puro, con una biografia da reduce di guerra light, in India e in Birmania. Prima ci fu Stoner, poi uscì Butcher's Crossing, un romanzo sulla caccia da alcuni paragonato a Moby Dick, al posto della balena i bisonti, in realtà una bistecca narrativa né carne né pesce. Però esprimeva bene l'evergreen del bovarismo esotico di americanità da prateria, lo vedrei bene vicino al menù dei fratelli La Bufala.

Adesso, emozione, esce il romanzo di esordio di John Williams, stavolta senza bufali, però un'altra bufala. Titolo: Nulla, solo la notte. Magari ci fosse solo la notte, una lagna soporifera anche di giorno: Arthur Maxley è come un Antoine Roquentin scaraventato a San Francisco tra un cocktail, un dormiveglia pieno di sogni appiccicosi, e speculazioni sull'infanzia infelice. Il protagonista vi racconta il contorcersi della sua «anima sporca e disordinata» per centotrenta pagine che sembrano tremila, non passano mai. Tutto va «addensandosi ai margini della sua coscienza, come un ammasso di nuvole che s'addensa e si contorce in un cielo chiaro fino a rievocare un volto familiare…». Sulla quarta di copertina in compenso s'addensa una splendida frase del New Yorker (una frase del New Yorker è d'obbligo in ogni caso letterario americano), totalmente condivisibile: «La pulizia della scrittura di Williams è così poco appariscente e simile alla lucentezza che resiste sui pavimenti bruniti di legno massello». Significa che potete metterlo sotto la zampa del tavolo ballerino e tiene bene per decenni, fossi Ikea ne prenderei uno stock. Tuttavia, attenzione, non si parla male di un caso letterario, specie se americano: anche se non è Adelphi rischiate una brutta figura. Lo faccio io perché tanto sono uno scrittore stronzo, e perché me lo posso permettere. Ufficialmente si dice così: John Williams è il nuovo Melville delle praterie dell'anno scorso, ora il Sartre di San Francisco, me ne dia subito una copia.

E poi anche una margherita di bufala e una coca media, grazie.

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