Cultura e Spettacoli

Che anima latina. Che cuore mediterraneo. Che mente italica

Il mito di fondazione del nostro Paese è claudicante e troppo recente Per farlo rivivere bisogna tornare molto più indietro dell'Ottocento...

Che anima latina. Che cuore mediterraneo. Che mente italica

Anima latina, cuore mediterraneo, mente italica. È il tricolore della tradizione italiana, l'Italicum delle origini. Anima latina, espressione antica, fu pure una canzone di Lucio Battisti di quarant'anni fa e dette il nome a una sua compilazione canora, per restare in ambito linguistico latino. Scritta da Mogol, Anima latina cantava bambini allegramente malvestiti, grosse mamme antiche, il sangue delle genti e i presepi vivi «che nessuna forza per quanto potente può veramente piegare». Cuore mediterraneo è invece la metafora di un mare serpeggiante tra le terre che fu chiamato non a caso culla o bacino, in cui fiorì la civiltà delle madri, il matriarcato e in cui videro la luce le principali matrici dell'Occidente. Mente italica, infine, evoca la più antica scuola di pensiero che sorse nel meridione e che alla nostra terra dette il nome, la scuola italica, fondata dai pitagorici a Crotone, che ispirò tanti filosofi, Platone incluso, e figure ieratiche come Apollonio di Tiana, il Gesù pagano (di cui esce ora una biografia di Miska Ruggeri da Mursia), per giungere dopo otto secoli a Plotino che fondò a Roma la sua scuola filosofica.

Tutto così terribilmente remoto e stridente con la festa dell'Unità d'Italia che cade proprio oggi, 17 marzo, e che tre anni fa apparve come una meteora in occasione dei 150 anni e prontamente scomparve. Eppure in quel triangolo favoloso - anima latina, cuore mediterraneo e mente italica - pulsa il mito di fondazione dell'Italia. Altri popoli conoscono epiche di fondazione legate a eroi leggendari come El Cid Campeador o Vercingetorige, per restare nel mondo latino. Noi italiani ci siamo dovuti accontentare di Garibaldi e del suo mito recente e controverso per non disperderci nella storia romana antica. Eppure il Mito di fondazione è qualcosa di più d'una bella leggenda o una favola per insegnare ai bambini l'amor patrio. E nel caso italiano il mito di fondazione non può ridursi al processo unitario dell'Ottocento. Alle origini del mito italiano non c'è un condottiero ma un uomo di pensiero e poi altri uomini di lettere. Dico di Pitagora, mitico sapiente, matematico, cultore della musica e del bello e guida politico-religiosa che per primo pensò di unire la penisola italica (per certi iniziati massoni Pitagora era rinato, non a caso, in Mazzini). Dico di Virgilio che narrò nell'Eneide il mito romano di fondazione nella figura di Enea. Virgilio, ricorda Mario Lentano nel recente Il mito di Enea (con Maurizio Bettini, Einaudi), immaginò «per la stirpe dell'eroe troiano una remota ascendenza italica» per assimilare il viaggio di Enea verso l'Italia al modello epico del Nostos, il ritorno in Patria, come fu già per Odisseo. Sempre in Virgilio si legge la promessa mitica di Giove: «Conserveranno gli Ausonii la patria lingua e i costumi... e renderò tutti in un'unica lingua latini». L'Ausonia è un altro nome antico e poetico dell'Italia. Dione di Prusa scriveva che quando Enea occupò l'Italia, era allora «la regione più prospera d'Europa». Già prima di Roma...

Dante tenne viva la fiaccola italica e sognò per tutta la vita un Veltro che la unisse e desse un corpo a quell'antica anima spirituale. Scrive René Guénon nel suo libro dedicato all'esoterismo di Dante: «Da Pitagora a Virgilio da Virgilio a Dante, la “catena della tradizione” non fu senza dubbio rotta sulla terra d'Italia». A proposito di Dante esoterico è apparso quasi clandestinamente in questi giorni nelle sale un curioso docu-film dedicato al Mistero di Dante, incentrato sui fedeli d'Amore e sulla dottrina «che s'asconde sotto il velame de li strani», scritto e diretto da un esoterico Louis Nero con musiche di tali Mercurio e Angel. Il mito d'Italia restò intellettuale e letterario per molti secoli, risuonò in Petrarca e Machiavelli fino a Leopardi e Alfieri, Foscolo e Manzoni, prima di farsi storia. A tal proposito è stato ristampato L'invenzione dell'Italia moderna di Giulio Bollati (Bollati Boringhieri) che sottolinea la genesi letteraria dell'Italia. La linea di Pitagora, Virgilio e Dante, riaffiora in Vico e nella sua straordinaria ricerca dei miti di fondazione italica, tra linguaggio e sapienza poetica. In particolare nel De Antiquissima Italorum Sapientia, dove è spiegata la genesi «ariosa» dell'anima latina, la cui sede, nota Vico, era indicata dai primi filosofi d'Italia nel cuore. E poi Vincenzo Cuoco col suo Platone in Italia, un ponderoso romanzo filosofico, anche farraginoso, che si sofferma sull'ardito disegno di Pitagora che ancor prima dei romani «volea far dell'Italia una sola città» perché la civiltà italica era anteriore alla fondazione di Roma. Pitagora, notò Cuoco, aveva una dottrina interiore, ossia per iniziati, e una esteriore per il popolo (a Pitagora si richiamerà poi la ritualità massonica): «la setta pittagorica comprendeva allora quanto vi era di meglio nell'Italia meridionale». Poi venne Vincenzo Gioberti col suo Primato morale e civile d'Italia in cui sottolineava che «il nome d'Italia è antichissimo e perpetua la sua civiltà» e la sapienza italica, che è alle origini della cultura e della civiltà, sorse in Magna Grecia coi Pitagorici, poi dal sud d'Italia si estese nel mondo, e «venne finalmente riportata in Italia, dove rifulse in Catone, Varrone e Plinio».

Storia e favola s'intrecciano nel mito. D'altra parte, insegna Vico, i latini chiamavano memoria sia la capacità di ricordare, la reminiscenza dei fatti passati, che la fantasia, ossia la facoltà immaginativa di trasfigurarli nella nostra interiorità. Per i latini, spiega Vico, «immaginare equivaleva a memorare». Un mito di fondazione è proprio questo, storia vera che si fonde a leggenda. Non a caso Cuoco definiva i miti «pre-giudizi», cioè canoni necessari che precedono i giudizi. Tuttora ne siamo pervasi: si pensi ai cataloghi di pre-giudizi politically correct da osservare nel linguaggio e nelle relazioni, diffusi pure nelle scuole. Descrivendo l'Italia come «un vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque e dall'impeto del terremoto» Cuoco vedeva già due secoli fa La grande bellezza italica, per poi concludere che «l'antico non è più ed il nuovo deve essere ancora». E aggiungeva che «la moderata e ragionevole stima di se stesso è il solo e vero principio di ogni nazionale energia» ma gli italiani tendono a disprezzare «soverchiamente loro stessi». Parlando degli italici, e in particolare dei tarantini, Cuoco notava che «i loro fondatori sono o figli di numi o figli di bagasce». Almeno per metà quella discendenza è tuttora in voga..

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