Cultura e Spettacoli

La critica milita tanto e produce poco La solita «compagnia di giro»

La critica milita tanto e produce poco La solita «compagnia di giro»

È significativo che esistano critici militanti e non fruttivendoli militanti, operai militanti, avvocati militanti, escort militanti. I critici in Italia militano, e non ce n'è uno dei militanti viventi che abbia scritto un solo saggio capitale, capace di durare nel tempo, come Bachtin su Dostoevskij, Steiner su Tolstoj, Barthes su Sade o Bloom su Shakespeare. E prima o poi, perdonate, bisognerà anche sfatare certi miti: Samuel Beckett dice in settanta pagine su Proust tutto quello che Giacomo De Benedetti non è riuscito a capire in una vita. E Debenedetti era uno bravo.
Il militante da noi milita per occupare posti di lavoro, terze pagine, cattedre universitarie, case editrici con i quali pubblicare librini per fare bibliografia. O saggi di un'autoreferenzialità mistico-massonica: la critica che riflette sulla crisi della critica, quando non il critico di se stesso, tipo Berardinelli e La Porta che si parlano addosso l'un l'altro o ti spiegano come vedono il mondo loro, che francamente chissenefrega.
Il militante lo riconoscete subito anche da un'altra cosa: appena può ti cita Pasolini, il passepartout dell'engagé preoccupato dei destini del mondo. Non esiste più la critica a cui George Steiner dava il compito di riconoscere i capolavori, sono tutti sociologi e parlano solo di sociologia applicata alla letteratura, cioè leggono un romanzo per ragionare sulla crisi economica, l'alienazione, l'Italia di oggi, l'Italia di ieri. Anche Carla Benedetti, la critica che scrisse Il tradimento dei critici, cosa ha prodotto di fondamentale? Nell'ultimo libro, Disumane lettere, uscito l'anno scorso, cercava di coniugare cultura umanistica e global warming. Per carità sempre meglio di Non incoraggiate il romanzo di Alfonso Berardinelli, a cui fece eco Meno letteratura per favore! del fido Sancho Panza La Porta, autore del famoso L'autoreverse dell'esperienza che sosteneva la fine dell'esperienza, ma come gli verranno.
Tutto questo con varie crisi d'identità di categoria, perché a forza di militare tra di loro si innescano loop comici, tipo Massimo Onofri che in un libro si domanda «Chi è il critico letterario? Cosa fa il recensore quando recensisce qualcosa? Di cosa parlo quando parlo di recensioni? La recensione è un genere letterario specifico, o non è, piuttosto, una modalità del pensiero e della scrittura, tale da poter coincidere con la critica letteraria in quanto tale o, per lo meno, con un suo modo d'essere costitutivo?».
Mentre certi militanti più mondani hanno trovato un modo d'essere costitutivo a Villa Giulia, diventando giurati o concorrenti degli Strega, spesso entrambe le cose, come il critico militante Emanuele Trevi che scrive romanzi per vincere lo Strega, o Gabriele Pedullà, giurato del Premio Strega, figlio del vecchio Walter Pedullà, giurato dello Strega, e via così, una bella combriccola di militanti e amici e i figli della domenica.
Tra l'altro, ve lo immaginate come potrebbe mai essere autorevole Harold Bloom se poi si presentasse a un premio con Qualcosa di scritto? O peggio ancora con Una storia romantica di Antonio Scurati?
A proposito di Scurati, non gli basta aver dilapidato decine di migliaia di euro comunali in insignificanti baracconi letterari (Officina Italia), continua a voler pensare e così esce in questi giorni con un nuovo saggio per Bompiani che, avviso la Protezione Civile, sarà inflitto ai poveri studenti. Titolo: Letteratura e sopravvivenza, sottotitolo La retorica letteraria di fronte alla violenza. Uno sfracellamento di attributi maschili indescrivibile, ma anche un altro esempio di degenerazione onanistica, neppure più sociologica, perché con Scurati siamo oltre: siamo alla sociologia della critica della sociologia applicata alla sociologia, una sega circolare senza capo né coda. L'assunto è tutto sulla quarta di copertina, o almeno ci prova, il pensiero di Scurati è troppo complesso: «Il libro individua l'essenziale della parola letteraria nel contributo che la sua componente retorica e comunicativa fornisce alla lotta interminabile con cui la specie umana - costantemente sottoposta a una minaccia di autoestinzione- tenta faticosamente di mantenersi in vita». Qui l'unico che tenta di mantenersi in vita è il lettore, e se aprite il libro c'è una lunga introduzione, una specie di orazione funebre, intitolata «La dischiusura del campo letterario». Nella quale Antonio Scurati si dischiude come una Sara Tommasi ermeneutica per spiegarvi la necessità di affrontare «la topica retorica applicata alla letteratura e la logica che sottende la qualità di “logica del vivente”», ossia «il motivo della sopravvivenza che fin dal titolo quale orizzonte primario e non trascendibile in cui si accampa l'impresa letteraria». Non crediate che tutto questo trascendibile sia senza sforzo, Scurati si sforza e precisa: «Il mio personale sforzo mira a individuare il punto di contatto tra quella che, indubitabilmente, è un'attività di elaborazione di simboli culturali, e quella che riconosceremo come una “logica del vivente”: discorso tutto proteso alle condizioni basali della sopravvivenza...». Ecco, per dire, magari questo discorso così proteso sarà utile al governo Monti e alla spending review per evitare i brutti tagli lineari, e gia che ci sono segnalerei all'attenzione del governo anche il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza, di cui Scurati è membro, a cosa serve? Anzi, dovremmo trovare il modo di tagliargli direttamente i viveri, a Scurati e a tutti i militanti.

Cioè almeno togliergli le cattedre, mirando bene, al centro della qualità logica del vivente, alle condizioni basali della loro sopravvivenza.

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