Cultura e Spettacoli

Debord, il situazionismo è grave ma non serio

Il padre del movimento che anticipò il Sessantotto si definiva "dottore in niente". E i suoi allievi lo imitarono. Torna il Panegirico, in cui esalta l'alcol più delle idee

Debord, il situazionismo è grave ma non serio

Se l'arte precorre il destino della società e il pensiero precede la parabola di un'epoca, il pensiero e l'opera di Guy Debord (1931-94), e pure la sua vita e la sua morte, sono il preambolo esemplare del Maggio francese, del '68 e dei suoi derivati. Ho sotto gli occhi il Panegirico di Debord, uscito ora in Italia nell'edizione completa dei due tomi, di cui uno quasi totalmente iconografico. Lo pubblica Castelvecchi (pagg. 160, euro 13,50) ed è il memoriale autobiografico del fondatore dell'Internazionale Situazionista, celebre soprattutto per la sua opera La società dello spettacolo, che uscì l'anno prima del Maggio francese e ne fu il preludio più famoso. Debord si suicidò nel 1994, sparandosi un colpo al cuore all'età di 63 anni e fece bruciare il terzo tomo di questo diario delirante.
Fu un po' artista, un po' filosofo, un po' sociologo, un po' regista, un po' cospiratore, ma non fu compiutamente nulla di tutto questo, autentico prototipo del sessantottino. Non a caso si definì dottore in niente. In un'epoca di tecnici, dove quel che conta è la professionalità, Debord si definisce «un ottimo professionista» ma non sa di cosa. «Tale sarà stato il mio mistero, agli occhi di un mondo condannabile». Debord colse la centralità dello spettacolo nella società contemporanea e arguì che l'alienazione, lo sfruttamento, la mercificazione, il consumismo non nascevano più nell'alveo della società industriale del capitalismo, come ai tempi di Marx, ma nel regno liquido e cromatico dello spettacolo, della sovrastruttura si direbbe con linguaggio marxiano, dove l'immagine e l'immaginazione, il look e il video, sostituiscono la sostanza dei rapporti di produzione ma anche dei rapporti sociali. Il '68 e di pari passo la centralità del video, della tv, nella vita di ciascuno, sarà il frutto evidente di questa rivoluzione intuita da Debord, dove il pubblico irrompe nel privato e poi viceversa. Il progetto di Debord è ben riassunto da un rapporto sull'insurrezione situazionista che lo stesso Debord cita ne La società dello spettacolo: «L'uguale diritto di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno morale». Il programma del Maggio francese è già pronto e condensato.
In tutta la mia vita, confessa Debord, ho visto solo tempi torbidi, anzi ne ho preso parte. Nella sua vita parigina dei primi anni Cinquanta, tra il bohémien e il teppista, c'è un modello ereditato e uno trasmesso. Il primo è il poeta maledetto, un po' flâneur e un po' delinquente, da Villon a Baudelaire, passando per Marlowe e Machiavelli, che s'ingaglioffa e frequenta brutti ceffi, sobborghi malfamati, locande e puttane, anzi «giovani malandrine e belle bambine perdute nelle bettole». Il modello di cui è ispiratore è appunto il Maggio parigino che lui dice di aver vissuto con sedici anni d'anticipo. Il suo lungometraggio In girum imus nocte et consumimur igni precorre la gioventù che vive solo di notte e si consuma nel fuoco: «È stato così che ci siamo definitivamente arruolati nel partito del diavolo». In un film dedicato al Marchese de Sade, Debord inserisce una sequenza interamente nera di 24 minuti; lo spleen e il nero esistenzialista della sua gioventù ispirano questo suo insopportabile notturno con blackout prolungato. C'è un capitolo del suo Panegirico che celebra il suo alcolismo - «Ho molto letto ma ho bevuto di più» - e dei suoi effetti: vertigini, insonnia, gotta. D'altra parte, notava Baltasar Gracián, ci sono quelli che di sbornie ne hanno preso una sola ma è durata tutta una vita. Con gli anni Debord rimpiange nostalgicamente i buoni alcolici di una volta, che hanno perso completamente il loro gusto. Si può essere reazionari e passatisti anche nella dissolutezza. Ah, le squisite perdizioni di una volta...
Con malcelato orgoglio Debord si definisce «un notevole esempio di ciò che quest'epoca non voleva». Allo status di indesiderato tenne molto, vi costruì la sua fama e il suo appeal. Debord visse molto all'estero, alcuni anni fu anche in Italia, soprattutto a Firenze, dove alla fine fu espulso nel '77 perché fu considerando uno di quelli che soffiava sul fuoco degli anni di piombo. Lui definì la polizia italiana «la più cinica» d'Europa ma col suo metro potrebbe essere anche un complimento. È contento di citare i rapporti di polizia che a proposito degli anni di piombo ritengono che «la pista più seria fa capo alla cerchia di Guy Debord» ed egli è al centro di brillanti congiure sovversive. Debord cita poi con tono elogiativo il generale Westermann che nel 1793 ricorda di aver massacrato in Vandea donne e bambini: «Ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli, massacrato le donne che non metteranno più al mondo briganti... Ho sterminato tutto». Questo prode massacratore verrà a sua volta giustiziato dai giacobini insieme ai dantonisti, perché ritenuti Indulgenti...
Ripresentando negli anni Novanta La società dello spettacolo Debord ammise che era stato scritto «con l'intenzione di nuocere alla società spettacolare». A conti fatti, non c'è riuscito. Ha nuociuto, semmai, ai rapporti e alle istituzioni tradizionali. La società, per citare Feuerbach, ha sempre di più preferito l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà. E lo spettacolo ha risucchiato nel suo teatrino anche i suoi critici più radicali.
L'Internazionale Situazionista, nata in Liguria nel 1957, fu il movimento anarco-marxista che spostò sul tempo libero e sulla psicogeografia il terreno del conflitto. Lo stesso Debord sconfessò i pro-situ, come chiamava i seguaci del suo movimento. I situazionisti, che nel 1968 avevano occupato la Sorbona «per mettere fine a sette secoli di sciocchezze», nel '72 decidono di sciogliere il movimento. Le loro «sciocchezze» durarono solo pochi anni. Il situazionismo fu il tentativo di trasferire il surrealismo dall'arte alla vita, nella speranza di trasformarla in opera d'arte collettiva in movimento, mediante un'estetica della sovversione. Fu lo snodo perfetto tra l'anima eversiva del '68 e l'anima ludico-trasgressiva. Il caos creativo alla fine lasciò solo cocci rotti e vite disperse o bruciate; niente di grande e di duraturo, eccetto un vivace disordine. Chi non si autodistrusse, s'accomodò nel sistema: l'apocalissi s'integrò.
La distruzione fu la mia Beatrice, scrisse Mallarmé, e Debord sottoscrisse. Ma quella Dama furiosa non ispirò capolavori di tipo dantesco.

Dopo Rimbaud, l'inferno ha generato svariate vite dannate, ma non opere che sfidano i secoli.

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