Cultura e Spettacoli

Ecco i racconti di Joyce che fanno litigare i fan

Avviso: se siete dei joyciani, non leggete questo articolo perché già ho la posta piena di insulti di religiosi di varie confessioni, mancate solo voi. Perché insomma, nessuno, come James Joyce, una volta passato il limite segnato dall'Ulisse, è riuscito a essere autore di un libro tanto citato come classico quanto non letto perché illeggibile. Se non per adepti con un'indole fanatica simile ai fan pugliesi di Carmelo Bene o ai groupie sedicenni di Lady Gaga.
Infatti non appena l'editore Gallucci pubblica Finn's Hotel (pagg. 128, euro 13) si scatena il finimondo. Perfino Il Piccolo di Trieste, città di Italo Svevo e preferita da Joyce, striglia il povero Gallucci per aver pubblicato ciò che Joyce non avrebbe mai voluto (ma chi lo dice?): dei frammenti, degli abbozzi, dei racconti, poi confluiti nel Finnegans Wake. In ogni caso di qualsiasi autore si pubblica tutto, postmortem, dov'è la tragedia, la lesa maestà? Allora non avremmo dovuto pubblicare neppure lo Zibaldone di Leopardi o i romanzi di Kafka. Per alcuni, inoltre, questo Finn's Hotel sarebbe l'«anello di congiunzione» (brutta espressione usata di solito dai cattivi giornalisti a ogni ritrovamento fossile di ominide) tra Ulisse e Finnegans Wake e quindi a maggior ragione bravo Gallucci.
In realtà il buon Carlo Gallucci ha fatto benissimo per almeno altri due motivi inconsapevoli. Primo: leggendo Finn's Hotel potete fare a meno di leggere Finnegans Wake, che tanto non avreste letto comunque. È un Finnegans portatile con tante storielle irlandesi (Il raccontino del tino, Il bacione, La casa delle cento bottiglie...) e alla fine è carino, quasi delizioso, un libro da salotto letterario per signore fantasiose, tipo un Calvino di Dublino. Secondo: strizzati i racconti di Joyce tra due prefazioni e una lunga postfazione, è un bellissimo esempio di come i letterati siano il virus Ebola di ogni libro, e di come faccia bene Adelphi a pubblicare i testi nudi e crudi.
Non si salva neppure Ottavio Fatica, il traduttore: ti racconta per più di dieci pagine il perché ha accettato la fatica di tradurre questo libro, ma chissenefrega. Spiegandoti inoltre perché Joyce è importante, sentite qui: «Joyce è il precipitato della soluzione modernista. È l'artefice che finalmente scrive il Libro, secondo l'evangelista Mallarmé, cioè l'opera d'arte totale, wagneriana o no, cioè ancora e sempre il mito della Grande Opera Alchemica, passata però al setaccio dell'ottica sprezzante modernista, triturata dalla catena di montaggio, logorata dalla vita di trincea e dal lascito della grande guerra, un orizzonte ruggine cruento irto di filo spinato». Nel filo spinato ci avrei stritolato cruentemente lui, il prefatore Danis Rose e il postfatore, Seamus Deane. Il quale ti dice infine come capire che in Joyce «la condizione di ultimità si tramuta di continuo in quella di primità». Ah, beh.
Già che ci sono, aggiungerei: l'annosa contesa di genialità tra Joyce e Proust andrebbe sfatata una volta per tutte a vantaggio del secondo. Proust anticipa le neuroscienze, legge Darwin e dà forma a una visione tragicamente biologica della vita, dei sentimenti e della mente, usa la lingua come nessun altro senza farne mai un fine, e chiude definitivamente con il romanzo restando nel romanzo, portandolo al suo estremo artistico possibile. Joyce è un genio che, dopo l'Ulisse, anticipa solo il formalismo delle neo-avanguardie. Proust è tutt'oggi uno scrittore moderno, assoluto e universale, Joyce si insabbia nell'epica irlandese e la fascinazione della parola per la parola, nel meccanismo strutturale della lingua. Al massimo anticipa l'opera aperta di Umberto Eco e la grammatica universale di Noam Chomsky.
Allora ti viene da pensare: stai a vedere che aveva ragione Virginia Woolf a stroncare Joyce e aveva torto quando se ne pentì. E che quando Proust rispose a Joyce di non aver avuto tempo di leggere l'Ulisse in realtà è stato solo gentile. Tuttavia, per non essere di parte, chiedo un parere su Finn's Hotel a Tim Parks, il quale fra l'altro recentemente ha scritto un illuminante articolo su Joyce per la London Review of Books. E Parks, che speravo difendesse Joyce, mi risponde tranchant: «Alla fine chi importa se lo pubblicano o no. Tutto quello che ha scritto dopo l'Ulisse è più o meno illeggibile, oltre che intraducibile. E anche gran parte dell'Ulisse. Il fine è sempre stato il virtuosismo. L'idea che possa danneggiare la sua reputazione fa ridere. La sua reputazione è ben oltre i risultati.

L'ultima cosa di cui dobbiamo preoccuparci è la reputazione di Joyce».

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