Cultura e Spettacoli

Ecco l'Italia dei contrasti che naufraga in allegria

I giorni dispari penso che dobbiamo salvare gli italiani dall'Italia, i giorni pari penso invece che dobbiamo salvare l'Italia dagli italiani. La domenica penso che ormai solo un dio ci può salvare. L'Italia da cui salvarci è l'Italia impossibile in cui viviamo, lo Stato, la malagiustizia, la malapolitica, le istituzioni sciagurate, Equitalia, il fisco e altri agenti del male. L'Italia da salvare dagli italiani è invece la sua civiltà, le sue opere d'arte, i suoi centri storici, le sue eccellenze. Per non seguire la china sconsolata dei nostri giorni, ripeto un mantra: non siamo sull'orlo della catastrofe, ogni epoca ha le sue croci e i suoi punti bassi. Non è la fine del mondo. Eppure viviamo per la prima volta in vita nostra in un Paese a corto d'idee, di uomini e di soldi. È capitato in passato di vivere periodi a secco d'idee o periodi in cui comandavano uomini inadeguati; è capitato di vivere in tempi d'austerity o piombati nella crisi economica. Ma non ricordo un'epoca in cui fossero così perfettamente e maleficamente allineati i tre pianeti. Penuria di idee, di uomini e di soldi, nello stesso tempo. Naturalmente sono tre metafore abbreviative che servono a indicare tre carenze: mancano principi di orientamento, modelli di riferimento, pensieri vitali e vivacità culturale; poi difettano classi dirigenti, élites, e persino popoli; al loro posto ci sono classi dominanti, caste, sette e masse di single. E infine mancano i mezzi, le risorse, il lavoro, calano gli standard di vita e la percezione del benessere, serpeggia la convinzione che il meglio è passato e le generazioni odierne staranno peggio delle generazioni precedenti. Vige la teoria involuzionista, un darwinismo a rovescio, non c'è la sopravvivenza del più adatto ma del più infame.
Pensavo a questa triplice penuria di idee, uomini e soldi davanti a due libri editi da Laterza e ambedue centrati sull'Italia tramite l'occhio magico della mitologia: Il popolo e gli dei di De Rita e Galdo (pagg. 104, euro 14) e Un paese senza eroi di Stefano Jossa (pagg. 283, euro 22). Il libro di Jossa narra l'assenza nel nostro paese di eroi popolari attinti dalla letteratura e sostiene, come il vecchio Brecht, che gli eroi non facciano bene alla politica; bastano i simboli criticamente rielaborati. Gli altri popoli hanno El Cid e Robin Hood, Guglielmo Tell e d'Artagnan, a noi alla fine, esaurito il Cuore deamicisiano, resta Pinocchio. Jossa cita i precedenti analoghi del suo titolo gobettiano ma dimentica quello che più somiglia: Italia senza eroi (Rusconi, 1980) di Ludovico Garruccio, pseudonimo del diplomatico Incisa di Camerana, morto lo scorso anno. Il libro di De Rita e Galdo invece racconta la perdita della sovranità nazionale, sancita dalla lettera della Bce che sancì la caduta del governo Berlusconi liberamente eletto dal popolo; poi la fine della rappresentanza; infine la sudditanza verso regni lontani e verso quei 60mila funzionari della Tecno-finanza che decidono le sorti del mondo. Ma il potere del mercato è cieco, non ha un disegno e tantomeno una visione. Siamo il popolo della sabbia, dice l'immaginifico De Rita, e viviamo ormai da separati. Curiosa la statistica che introduce il libro. Alla domanda su chi detiene il potere in Italia vien fuori una varietà di risposte la cui somma deborda il 100%, col risultato grottesco che il 75% degli italiani è convinto che il potere sia ancora in Italia, tra governo e regioni, e il 62% ritiene invece che sia fuori d'Italia tra Europa, mercati e organismi internazionali... Due maggioranze assolute, ma non si capisce se è sbagliato il sondaggio o il sondato, cioè il popolo italiano. Ne vien fuori un paese bipolare, ma nel senso di sdoppiato e schizofrenico.
Tentando un succinto Rapporto Italia proviamo a definire oggi gli italiani. Scettici spompati, europeisti pentiti, patrioti espatriati, sfiduciati globali, ego-individualisti mononucleari, finiti nel pantano dopo il fallimento triplice di politici, tecnici e antipolitici. Un Paese paralizzato al vertice dai veti incrociati e alla base dal disprezzo reciproco e universale. Il motto del paese è «tutti a casa», da intendere come auspicio per i potenti, come minaccia sul lavoro e come rifugio nella vita privata. Per meglio definirci partiamo dai nostri primati europei se non mondiali: abbiamo il più alto tasso di proprietari di case, la più alta densità di cellulari, il maggior numero di beni artistici e la più forte rete di criminalità organizzata, il record di pressione fiscale, di quantità di leggi e tempi d'attesa, siamo poi il paese più longevo ma col tasso più alto di denatalità. Siamo il paese della dolcevita e della malavita. E poi, scarso senso civico unito a forte senso cospirativo, inattitudine alla comunità e propensione alla comitiva. Non c'è spirito di gruppo, ma in gruppo facciamo dello spirito. Abbiamo alle nostre spalle un perimetro di vere eccellenze: la civiltà romana in cui nasce lo Stato e il Diritto, la civiltà cristiana con epicentro cattolico a Roma, la nascita del capitalismo nella Firenze del '300, il genio artistico concentrato tra Medioevo e Umanesimo, Rinascimento e Barocco, la maggiori scoperte scientifiche su cui regge la vita contemporanea grazie a Meucci, Marconi e Fermi (e i computer di Olivetti) e i precedenti di Galileo, Volta e Galvani. E infine, una posizione geografica unica, un pupo al centro della culla (mediterranea): una posizione che eccita l'italocentrismo, forma puerile di ego/geocentrismo.
Viviamo tra prodigiosi scompensi e fortuite compensazioni: abbiamo uno Stato fragile ma un'italianità tenace, una lingua gloriosa ma un uso infame, un pessimo gioco di squadra ma ottime eccellenze di singoli, un'esposizione record agli errori e ai disguidi ma una capacità di rimediare assai versatile. Al degrado etico e culturale corrisponde la frana geologica e ambientale. Quando vedi che ogni giorno dal Palazzo Italia si staccano cornicioni, a volte cadono interi balconi, ci sono cedimenti strutturali, volano via riserve auree, grandi aziende, finiscono all'estero cervelli, energie, imprese, capitali, maturi la percezione che dopo tanti annunci di fine dell'Italia, stavolta ci siamo davvero. Ci duole l'Italia, come diceva Unamuno della sua Spagna. Ma proprio quando cresce il pericolo cresce la possibilità di salvezza, si attivano impensati anticorpi e scosse di adrenalina. La via di salvezza ha sei tappe: sovranità, responsabilità, meritocrazia, decisione, tradizione e creatività. E una premessa: osare. Se la decomposizione dell'Italia è il destino più probabile, tanto vale non restare inerti o addirittura diventare collaborazionisti e tifosi dello sfacelo, ma provare a mutare rotta. A questo punto c'è poco o nulla da perdere. «Credo quia absurdum - diceva in anglo-latino Ezra Pound - I believe in the resurrection of the Italy».

Atto di fede, di pazzia e di poesia.

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