Cultura e Spettacoli

Eliot, spirito conservatore in un corpo poetico

Tramite il mito, il cristianesimo e i classici, lo scrittore tentò di trovare la luce nella "terra desolata" del '900

Eliot, spirito conservatore in un corpo poetico

Thomas S. Eliot (1888-1965) non fu solo un grande poeta e un grande drammaturgo, ma anche un grande conservatore che cercò tramite la forza del mito, la tradizione dei classici e la conversione cristiana di trovare la luce nella Terra Desolata del suo secolo. Eliot morì cinquant'anni fa, ma quasi nessuno se n'è ricordato. Eppure le sue opere grandeggiano come poche nell'epoca contemporanea e se l'Europa fosse una cosa vera si ricorderebbe di lui come di uno dei suoi più grandi profeti che ha pensato attraverso la letteratura la civiltà europea, da Virgilio a Dante, da Shakespeare a Goethe.

Eppure Eliot nacque nel Missouri e dopo un soggiorno a Parigi, sbarcò cent'anni fa nell'anticamera dell'Europa o se preferite dell'antiEuropa, l'Inghilterra, e lì vi si stabilì per sempre. Incrociò il suo destino con quello di un altro grande americano conquistato dalla civiltà europea e dalla sua tradizione spirituale e letteraria, Ezra Pound, che fu per lui «il miglior fabbro» e il suo prezioso angelo custode: pagò di nascosto la sua prima raccolta di poesie, gli procurò un posto nella rivista The Egoist , liberandolo dalla schiavitù di una sorte da bancario, lo sostenne nelle traversie coniugali e nella malattia, lo aiutò a scremare e rendere scintillante il suo poema La terra desolata . Anch'egli fu definito modernista, come Pound (e Joyce), ma tutta la loro opera nasce da un ripensamento creativo della tradizione dei classici.

Non mi soffermerò sulla qualità letteraria della sua opera, ma sulla visione spirituale e civile che animò Eliot prima e dopo la conversione nel 1927 alla Chiesa Anglicana e sul grandioso senso del destino che percorse i suoi versi e la sua visione. Eliot sognò di evadere dall'angustia del presente, dalla prigione del '900 e dei suoi deliri totalitari e materialistici, per recuperare da un verso la maestosa bellezza del passato e dall'altro la proiezione nel destino futuro. Per lui il provincialismo non è la grettezza di chi è a disagio fuori dal proprio luogo: c'è un provincialismo del tempo di chi non sa cogliere nulla di vivo e di vero fuori dal raggio del suo presente. Questo provincialismo temporale è assai diffuso oggi nell'età globale: l'incapacità di confrontarsi, conoscere e capire il passato e pensare al futuro, l'incomprensione radicale di ogni altro piano, l'atrofia della dimensione trascendente, l'attaccamento totale e morboso al presente; è il provincialismo della contemporaneità che scambia il contingente con l'essenziale, l'effimero col durevole... E poi: «Qualunque retaggio ci lascino i vincitori/ Noi abbiamo preso dai vinti/ Quello che avevano da lasciarci: un simbolo» ( Quattro Quartetti ). Eliot non annoda solo la trama del presente al passato e al futuro, ma anche i legami della persona con la comunità, dalla famiglia alla nazione e alla Chiesa. In una vecchia casa, scrive in Riunione di famiglia , «C'è sempre qualcuno in ascolto/ si odono più cose di quante non vengano dette.../ Il dolore nella camera da letto con le tende chiuse,/ per una nascita o per una morte/ raccoglie in sé tutte le voci del passato/ e le proietta nel futuro».

Per Eliot l'Europa ha bisogno di un'organizzazione spirituale prima che tecnica ed economica; occorre varietà nell'unità, riconoscimento delle diversità locali e nazionali, perché «L'europeo che non appartenesse a nessun paese sarebbe un uomo astratto e avrebbe un volto inespressivo». Ma è altresì necessario che l'Europa ritrovi una sua unità nel segno della sua religione comune, la cristianità. L'Europa, a suo dire, non sopravvivrebbe alla scomparsa della fede cristiana. Con la fede anche la poesia travalica le appartenenze: un poeta, a qualsiasi nazione appartenga, è un nostro compatriota, pur rappresentando «il proprio popolo nel suo più alto grado» giacché «la poesia ha un carattere nazionale più accentuato della prosa».

Monarchico, Eliot elaborò un pensiero conservatore, ispirandosi a Burke, ma tenne a precisare che il suo non era un pensiero politico, bensì prepolitico, fondato sull'importanza delle radici e dei principi permanenti, sulla prevalenza dell'organico rispetto al meccanico, sul rapporto attivo col passato e con ciò che è vivo del passato, la tradizione. Eliot denunciò prima dei filosofi politici l'avvento di una democrazia totalitaria, in cui sopravvive il fantoccio della libertà ma l'ispirazione anticristiana e il primato assoluto del profitto spengono gradualmente ogni altro orizzonte, riducono le libertà, il pensiero e la fede. Eliot raccolse nel '48, l'anno in cui vinse il Nobel, tre conferenze sotto il titolo L'idea di una società cristiana (che uscì poi in Italia per le edizioni Comunità con un saggio introduttivo di Sergio Quinzio). Qui Eliot sostiene che «Distruggendo le tradizioni sociali di un popolo, dissolvendo in fattori individuali la naturale coscienza collettiva, concedendo libertà alle opinioni più sciocche, sostituendo l'istruzione con l'educazione, incoraggiando l'abilità piuttosto che la saggezza, gli “arrivisti” piuttosto che i qualificati, introducendo il principio del “farsi strada” come unica alternativa ad una apatia senza speranza, il liberalismo può aprire le porte a ciò che è la sua stessa negazione: il controllo artificiale, meccanico e brutale che il disperato rimedio al suo caos». Da qui l'idea di una società cristiana dove il diritto a conseguire il fine naturale dell'uomo - la virtù e il benessere condiviso col prossimo - verrebbe riconosciuto a tutti, e il diritto a un fine ultraterreno - la beatitudine - a coloro che hanno occhi per vederlo». Emerge la sua visione comunitaria della società, ispirata ma non obbligata dai principi cristiani e dalle tradizioni patrie. Eliot non seguì Pound nel suo sogno di un fascismo epico e dantesco, ma si fermò a una visione cristiana, ispirata da principi conservatori che proteggano le libertà civili e individuali. Ma non si fece illusioni, non inseguì utopie e guardò il suo tempo come una terra desolata, percorsa da un senso tragico della fine.

«Al finire di questa ispirazione/ e le torce e le facce e le grida/ il mondo sembrò futile come una gita domenicale».

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