Cultura e Spettacoli

Il Gruppo 63 e la sua misera eredità

Dopo cinquant'anni di quel cenacolo intellettuale resta solo l'occupazione dei posti chiave della cultura

Il Gruppo 63 e la sua misera eredità

Nel corso del 1963, avvenne l'attentato mortale a J.F. Kennedy, si spense papa Giovanni XXIII, e io, che frequentavo il Liceo in Liguria e in classe leggevo Omero e Foscolo, fuori Baudelaire e Sartre, passai una estate felice. Che tanti giovani intellettuali si erano riuniti a Palermo e avevano fondato un Gruppo chiamato 63 lo seppi l'anno successivo: arrivato a Milano a studiare alla Statale, il clima che aveva generato il Gruppo 63 mi avvolse di colpo e sconvolse tutte le mie certezze adolescenziali.

La cultura stava cambiando pelle, come tutto il resto: l'economia, la politica, il costume, la borghesia. Smantellato il pensiero crociano, l'idealismo filosofico che aveva dominato tutta la prima parte del Novecento, strutturalismo, semiologia, psicoanalisi, marxismo si erano imposti al centro della scena culturale. Luciano Anceschi, con la fondazione della rivista Il Verri, si era richiamato sin dal titolo all'illuminismo lombardo, e si era impegnato a promuovere il nuovo e a leggere la poesia nel suo farsi concreto, tra progetto e forma. Come lo ricordo io, nelle visite che gli facevo a Bologna e a Rapallo, Anceschi era un maestro, uno da cui si andava a prendere lumi, a discutere sui destini della letteratura e dell'Europa.
L'Antologia dei Novissimi, del 1961, con tutto il suo carico di provocazione apocalittica, fu avallata da lui. Nel 1962, uscì Opera aperta, di Umberto Eco, guida fondamentale ai meccanismi delle nuove tendenze artistiche. Nel 1963, Alberto Arbasino pubblicò Fratelli d'Italia, uno dei romanzi maggiori del secolo scorso. Il Gruppo 63 mise insieme questi singoli protagonisti. Ma in sé non produsse neppure un manifesto, mentre le Avanguardie storiche ne avevano fatto una stupenda scorpacciata, e in quanto Gruppo promosse una rivoluzione impiegatizia, dall'interno del sistema, senza bohème, dominata dal sarcasmo, aliena dalle passioni. L'opposto, per esempio, della Beat Generation. E in polemica con il neorealismo e con l'effusione lirica (in cui ricadeva Pasolini, il maggiore antagonista, e ricadevano Luzi e Caproni, allora messi in ombra) finì per chiamare il poeta «operatore poetico» e celebrare la distruzione della sintassi e dell'io, l'antipoesia e l'antiromanzo, l'ironia dissacrante, lo smontaggio ludico del senso.

Dopo mezzo secolo, restano soltanto rottami di tutto quel vortice di idee, allora così contagiose, oggi così inutili. Si può ancora leggere qualcosa di Sanguineti, poeta suo malgrado, Manganelli, a chi piace, con il suo virtuosismo nichilista e barocco che stranamente andava bene a tutti, dalla neoavanguardia a Citati, Balestrini con il suo Vogliamo tutto, romanzo che documenta con forza una stagione politicamente sbagliata. Balestrini si pensò come il rivoluzionario del Gruppo 63, che si scisse proprio sotto l'onda d'urto del Sessantotto: ma la sua poesia è rimasta conservatrice, legata pervicacemente ai cliché degli anni Sessanta.

Chi invece cambiò fu Umberto Eco. Lui era il più attrezzato culturalmente, ed era quello che conosceva meglio e dall'interno i meccanismi della cultura di massa. Così lasciò che finissero nell'abisso dell'afasia e della totale irrilevanza tutti i narratori sperimentali e para-joyciani. E lui scrisse, con il Nome della rosa (che è la sua opera più nota, non la migliore, personalmente preferisco Il Pendolo di Foucault e persino Il cimitero di Praga), un romanzo che riprendeva nella forma chiusa, nel genere del thriller, quei personaggi e quel plot che il Gruppo 63 avrebbe voluto distruggere.
Del Gruppo 63, alla fine, rimane soprattutto l'esempio della abilità a sollevare polemiche faziose e sopraffattorie, come quella scatenata contro Cassola e Bassani, e a occupare manu militari un grande spazio nella geografia del potere culturale italiano. Penso ad Angelo Guglielmi direttore di RAI3, dove si annida ancora qualche suo nipotino. Ed è questo esempio che periodicamente, in un paese passatista, di letterati conformisti che aspirano a «quattro paghe per il lesso», oggi diremmo forse per il sushi, spinge qualcuno a fare al Gruppo 63 una penosa rianimazione bocca a bocca, una oscena irrumatio al cadavere: come il Gruppo 93, e recentemente i cosiddetti TQ e il loro corifeo Andrea Cortellessa. Ma la letteratura è sempre anarchicamente allergica al potere.

La poesia si è ripresa da tempo la sua sintassi raziocinante, la sua festosità lirica, il suo bisogno di assoluto, come a esempio in Valentino Zeichen, in Tomaso Kemeny, in Milo De Angelis. Il romanzo, tra gli autori stessi che mossero i primi passi con la neoavanguardia, come Sebastiano Vassalli, Nico Orengo, Gianni Celati, ha virato verso forme di maggiore leggibilità, e ora tra i più giovani (vedi i casi di Alessandro Piperno, o di Silvia Avallone) si è ripreso i suoi meccanismi psicologici e il suo orizzonte sociale.
Io, dopo che ebbi studiato e attraversato tutta la neoavanguardia dal di dentro, mi ribellai subito ai suoi diktat. Mi ripresi il diritto di parlare di mito, di sacro, di natura, di eros. Oggi ricordo ancora la bella estate del 63. Il Gruppo 63, invece, l'ho da tempo completamente archiviato.

Commenti