Cultura e Spettacoli

"Il massacro del Ruanda è figlio del colonialismo. Ci ha insegnato a odiare"

La scrittrice africana Scholastique Mukasonga racconta la sua vita in un Paese diviso: "Tutsi, Hutu e Twa non sono etnie: se le sono inventate i Belgi"

Questa non è solo una storia africana. Nessuno qui è innocente. Nessuno può dire: non mi tocca. Scholastique Mukasonga ha 58 anni e vive in Normandia. A quattro anni ha visto bruciare la sua casa. La sua famiglia, quelli come lei, sono stati deportati nei campi di Nymata, destinati al genocidio. «Sapevano perfettamente di essere destinati a una morte violenta. Conoscevano i loro futuri assassini. Ci vivevano accanto. Scherzavano perfino sulla sorte che li attendeva». Allertare i sensi e sopravvivere, questo è il primo comandamento. Come diceva sua madre: «Ammira la mosca che vede da tutti i lati. Devi essere gli occhi della mosca». Sopravvivere per fuggire. Burundi, Uganda, Congo. Fuggire per ricordare. Parigi. «Poi è arrivata una lettera dal Ruanda. Era la lista dei miei morti: 37 nomi. E allora ti pesa il senso di colpa di essere sopravvissuta. Poi capisci: io sono la loro memoria». Immaginate. Ruanda, anni '70. Camminate verso l'alto, fino alle sorgenti del Nilo. Lì c'è un liceo femminile, cattolico, privato. La domenica, a ottobre, le ragazze arrivano a bordo di Range Rover, Mercedes e jeep. Sono figlie di ministri, uomini d'affari, potenti burocrati. Vi diranno che sono tutte Hutu, anche se le madri spesso non lo sono, anche se il confine delle razze è arbitrario. Tutte tranne due. Veronica e Virginia, ragazze di campagna, ammesse per la quota etnica, un'elemosina degli hutu. Veronica e Virginia sono tutsi. «E noi, che ne sarà di noi? Un diploma tutsi non è come un diploma hutu. Se c'è scritto tutsi non troverai mai lavoro, neanche presso i bianchi. È la quota». Eppure la storia di Nostra signora del Nilo (66thand2nd, pagg. 210, euro 16) non ha confini. Questo liceo per ricchi potrebbe stare a Ginevra, Parigi, Roma, Belgrado, ovunque a un certo punto non si riconosce l'altro come umano. È già successo e succederà ancora. È il modo in cui guardi l'altro che fa la differenza. Questa è la forza narrativa di Mukasonga. Quello che accade in quel liceo cattolico è universale.
È la cronaca di un anno scolastico. Chiacchiericcio tra adolescenti, rivalità amorose, e l'invidia. Veronica e Virginia sono belle. Troppo.
«È l'ideologia. Le altre ragazze vedono Veronica e Virginia più belle, ma anche loro sono belle. È lo sguardo degli hutu che è cambiato. C'è rabbia, disprezzo, rancore. Ci sono vent'anni di propaganda che batte sui loro cervelli. La bellezza è un'aggravante. L'intelligenza pure. Che ci fanno qui queste contadine? Come fanno a essere belli e intelligenti gli scarafaggi?».
Scarafaggi. È così che gli hutu chiamano i tutsi?
«Non è solo un insulto. È come vedevano mia madre e la mia famiglia nei campi di prigionia del 1956. È non riconoscerli come umani. È per questo che nel '94, quando per 100 giorni vengono massacrate 500mila persone, non c'è rimorso né pietà. La fabbrica del genocidio funziona se non si riconosce l'altro come umano. Pistole, machete, mazze chiodate e i cadaveri ammassati nel fiume, per farli tornare lì dove le leggende dei bianchi dicono che sono venuti. I tutsi discendenti dei faraoni neri, i tutsi copti, etiopi, discendenti delle dieci tribù perdute d'Israele, con la pelle poco nera, alti, con i tratti del volto simili ai bianchi. Estranei».
Tutto falso?
«Falso. È quello che si sono inventati i colonizzatori e questa favola è diventata la nostra tragedia».
Da dove arrivano allora i tutsi?
«Dal Ruanda. Non c'è mai stata una divisione etnica o di razza. Erano solo gruppi sociali. Gli hutu erano agricoltori, i tutsi allevatori, pastori e poi c'era un terzo mestiere i twa, prima cacciatori, poi vasai. I tutsi erano più ricchi, ma non erano classi chiuse, chiunque poteva migliorare la propria condizione. I ruandesi parlano tutti la stessa lingua, abitano gli uni accanto agli altri. L'élite politica e economica comprendeva sia tutsi che hutu».
Come diventano allora etnie?
«Sono i colonizzatori belgi che pensano di classificare i ruandesi. Si mettono a misurare le persone, l'altezza, i tratti somatici, la lunghezza del naso, la bocca. E decidono che i tutsi sono alti e snelli e vengono da lontano. Gli hutu sono la razza originaria, i twa sono di bassa statura. È così che i gruppi si irrigidiscono e non è più possibile passare da una parte all'altra».
I colonizzatori scelgono i tutsi come classe dirigente?
«Sì, ma poi li ripudiano negli anni '50 quando gli intellettuali tutsi scalpitano per ottenere l'indipendenza. Siamo in piena guerra fredda e temono che come in Congo possa diffondersi il comunismo. C'è poi una diffidenza per chi, ai loro occhi, appare troppo istruito, troppo simile ai bianchi. Anche i belgi hanno finito per credere alle loro leggende. Così fanno in modo di dare il potere agli hutu».
E comincia la vendetta.
«Una élite hutu, che ha studiato nei seminari, rivendica riforme che potrebbero anche essere giustificate, ma si ispirano a schemi razzisti: i tutsi sono invasori, stranieri parassiti, che bisogna scacciare. Nel '59 cominciano i primi pogrom. I tutsi non saranno neppure più considerati esseri umani, ma bestie, serpenti, inyenzi ossia scarafaggi. Una peste».
Nel liceo di Nostra Signora del Nilo c'è una ragazza che manipola le altre studentesse hutu. È lei che inventa l'odio. Alla fine quasi tutte la seguono.
«Come diceva Primo Levi i genocidi non sono mai un incidente. Si preparano per lungo tempo. Non sono un momento di follia o di smarrimento, ma il frutto di una manipolazione. Tutti in Ruanda, vittime e carnefici, siamo stati manipolati per anni».
Però alla fine a salvare Virginia è una ragazza hutu.
«Sì, ed è da lì che bisogna ricominciare. I ruandesi stanno imparando a non odiare. Ho letto l'altro giorno su un quotidiano la storia di una ragazza tutsi che ha sposato un huti. Non uno qualsiasi, ma l'uomo che ha ucciso suo padre. Molti pensano che sia sovrumano, ma solo dal perdono possiamo costruire un futuro».
Scholastique Mukasonga ha perdonato?
«Sono una sopravvissuta. Ma per vivere è necessario perdonare».


Ma si sente ancora una tutsi?
«Io sono ruandese».

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