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Nell'Italia anni Settanta le parole erano proiettili. E uccidevano davvero

La retorica della rivoluzione e dell'odio di classe generò una tremenda scia di sangue. Ma oggi gli slogan, in contesti diversi, tornano ancora

Nell'Italia anni Settanta le parole erano proiettili. E uccidevano davvero

Un saggio di Gabriele Donato, edito da Derive-Approdi, ha per titolo La lotta è armata e per sottotitolo Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972) . Tre anni cruciali, intrisi di violenza e di sangue, che inclusero l'autunno caldo a Torino, la strage di Piazza Fontana a Milano, la morte di Pinelli, l'uccisione del commissario Calabresi, il formarsi e rafforzarsi di una tensione eversiva che sarebbe poi sfociata nelle truci “esecuzioni” degli Anni di piombo. Secondo una versione autoassolutoria della sinistra «chi scatenò l'ondata di violenze furono i fascisti: la violenza di sinistra venne dopo...»( A. Giannuli, Bombe a inchiostro . A questa tesi sembra indulgere anche Donato quando scrive, a mio avviso con troppa perentorietà, che «in Italia, fino alla metà degli anni settanta furono le organizzazione dell'estrema destra a prevalere nel ricorso alla violenza politica. Questo fu sistematico dalla fine degli anni sessanta e si caratterizzò per le forme in cui si concretizzò: tumulti di piazza, aggressioni squadriste, terrorismo stragista. Dopo il 1975 invece fu la violenza esercitata dall'estrema sinistra a diventare prevalente». L'avvicendamento è suggestivo ma secondo me arbitrario. Ci fu sempre una sinistra rivoluzionaria che celebrò con molti ammazzamenti, già subito dopo la Liberazione, la caduta del fascismo.

Ma non questo m'interessa del saggio sulla lotta armata. M'interessa un paziente e puntiglioso assemblaggio di documenti che ripropongono la stralunata ottica di chi voleva distruggere tutto in una Apocalisse feroce e poi forgiare un nuovo modello di società. Tempi remoti eppure attualissimi. Remoti perché quell'utopia delirante è stata annientata dalla storia, ne resta soltanto qualche idea grottesca e qualche sigla vetusta (rinuncio a ripercorrere la mappa dei gruppi e gruppuscoli, perché ci si smarrisce). Eppure, ripeto, utopia attualissima perché l'ideologia perduta viene adesso adattata alle meschinità del quotidiano, la rivoluzione non ci sarà mai più ma il suo linguaggio può anche tornare buono. Nei primi anni settanta del secolo scorso lo sviluppo italiano ebbe una battuta d'arresto -una delle tante- il disagio dei ceti umili si accentuò e dilagarono iniziative protestatarie. Il 28 maggio del 1971 in molte città si svolsero cortei «contro la tregua sociale e per la ripresa dell'offensiva di classe». Nel successivo giugno un corteo di Lotta Continua a Milano manifestò in favore d'una quarantina di famiglie che in viale Tibaldi a Milano avevano occupato uno stabile e che erano state poi sgomberate. Non sembra cronaca d'oggi?

E sembra cronaca d'oggi il fatto che nelle piazze e in comizi venissero tranquillamente enunciati propositi eversivi. «Potere Operaio per l'insurrezione» fu la parola d'ordine di un convegno che si tenne all'Eur, non in una caverna desertica, dal 24 al 26 settembre 1971. «Muovere il movimento verso lo sbocco di potere -vi si sentenziò- significa dirigere l'articolazione del movimento delle masse verso la lotta armata, contro le istituzioni dello Stato del padrone». Ma oggi manca a queste farneticazioni il sostegno si una fede, manca il retroterra marxista, manca un Toni Negri, guru intellettuale. Nella varietà e litigiosità delle sigle che marchiarono la lotta armata, e soprattutto il suo avvio, si avvertiva un denominatore comune rivoluzionario, l'illusione di un consenso vasto, l'appello al combattimento. «Non è vero -fu scritto- che la violenza va bene solo quando è di massa cioè, a dire, materialmente esercitata con azioni e comportamenti che implicano una partecipazione diretta di massa. La violenza del partito, la violenza di cui la classe degli operai e dei proletari ha bisogno, è una violenza preordinata, comandata, specifica, il cui carattere di massa sta nella capacità di esprimere e di dare una risposta a un bisogno reale». Programma velleitario e totalitario. Al cui confronto gli sproloqui di un Beppe Grillo, capace dì avere ben più ampia adesione, sono schiuma, cipria, e tante parole. Dopo le spinte distruttrici enunciate in quella stagione di croci attese e avverate la realtà d'oggi sta come la commedia sta alla tragedia.

Spicca negli eventi di quei tre anni l'assassinio del commissario Calabresi. Preceduto da un fuoco di invettive allo Stato. «La violenza brutale, omicida della classe dominante e dei suoi agenti si è via via trasformata, e da mezzo è diventata fine. La strage di Stato è diventata lo Stato della strage». Non vi fu in Lotta continua rimpianto o compianto per la fine del commissario. «La massa dei proletari vede nell'uccisione di Calabresi la conseguenza giusta di una legge ferrea, violenta, di cui il dominio capitalista è responsabile. (Le masse) ...non a caso hanno visto nella morte di Feltrinelli la lunga mano del nemico di classe e nella morte di Calabresi una sconfitta del nemico di classe». Un raziocinare orrendo e disumano che è stato adesso sostituito dalla rabbia magmatica dei proletari ma anche dei borghesi.

Questi documenti sono, per chi voglia onestamente leggerli, una grande lezione sulle derive orrende del fanatismo. Ma Gabriele Donato è affezionato a schemi che pregiudizialmente simpatizzano per gli eversori, e pregiudizialmente antipatizzano le forze dell'ordine. Scrive: «Nella seconda metà del 1972 fu la capacità repressiva messa in campo dal governo di destra formato da Andreotti in accordo col liberale Malagodi a creare ostacoli significativi allo sviluppo dei movimenti sociali e a mettere in crisi in modo particolare i gruppi della sinistra extraparlamentare. Le difficoltà di questi ultimi si erano palesate quando non era riuscita la grande manifestazione convocata a Milano per protestare contro l'irruzione nei locali dell'Università statale che le forze dell'ordine avevano realizzato il 16 giugno». Ai rivoluzionari non riuscì, per fortuna, «la cacciata del governo democristiano-fascista». Andreotti, Malagodi, fantasmi tra i tanti d'un castello degli orrori.

Nel quale sarebbe più facile aggirarsi se questo saggio avesse, come era non solo consigliabile ma indispensabile, un indice dei nomi.

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