Cultura e Spettacoli

Il pittore più moderno? Visse cinquecento anni fa

Solitario, scontroso e onirico, il Pontormo propone un'arte frutto d'una costruzione mentale

Il pittore più moderno? Visse cinquecento anni fa

Il dipinto più moderno, inesauribilmente, il più moderno che sia mai stato concepito, è la Deposizione del Pontormo per la chiesa di Santa Felicita a Firenze, datato fra il 1526 e il 1528. Nessun dubbio che quella incredibile composizione con i colori acidi appartenga a una dimensione surreale e immateriale, onirica. Osserva con puntualità Salvatore Silvano Nigro: «A partire dallo spazio tutto è irreale in questa visione senza peso. Gli attori stessi avviluppati nei panneggi o vestiti di ombre colorate hanno aerea consistenza di libellule, e i colori sono di un delirio vegetale. Allegramente pagani, nonostante il tema: “I colori rosati, verdi chiari et alquanto gialli. Et i chiari turchini et altri così fatti si appartengono a ninfe, giovani, meretrici e simili” scriverà Lomazzo nel Trattato dell'arte e della pittura, scoltura et architettura del 1584. Quanto accade dentro la cornice dorata è un sogno colorato... è un pensiero che Pontormo coglie da dentro il quadro stesso, dove si è ritratto nei panni probabili di Giuseppe di Arimatea».

Il risultato di questi colori aerei è un galleggiamento delle figure che non consiglia d'inseguire alcun confronto con la realtà. Vasari osserva: «Pensando a nuove cose la condusse senz'ombra e con un colorito chiaro e tanto unito che appena si conosce il lume dal mezzo e il mezzo dagli scuri. In questa tavola è un Cristo morto deposto di Croce, il quale è portato ala sepoltura: evi la nostra donna che si vien meno, e le altre Marie, fatte in modo tanto diverse dalle prime, che si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare. Non si contentando e non si fermando in alcuno».

La singolarità dell'opera spiega perché per ben due volte si sia recuperato e pubblicato il diario di Pontormo. Prima l'edizione critica di Emilio Cecchi, poi quella riveduta e corretta di Salvatore Silvano Nigro, con il titolo Il libro mio. La stessa visionaria modernità del dipinto si rispecchia nelle annotazioni, su un quadernetto, che è diventato uno strumento per comprendere l'anima di Pontormo senza mai affrontare concetti o pensieri. Un diario di cattivi umori.
Ora Nigro lo ripubblica presso l'editore Bompiani come allegato di un vigorosissimo e notevolissimo saggio sull'artista, dal titolo L'orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista (che ricalca L'invenzione di una prefettura di Leonardo Sciascia). La seconda incursione da parte di un letterato nel mondo di un pittore sofisticato e difficile è introdotta da un'altra assai pregevole escursione di Giorgio Manganelli, e ci conforta non tanto per l'allargamento della prospettiva critica, quanto per l'intensità dell'interpretazione letteraria che appare di gran lunga più sensibile e attrezzata di quella dei critici d'arte. Perché il racconto-saggio di Nigro non è soltanto un'avvincente lettura dello stravagante diario di Pontormo, ma anche un'interpretazione complessa e appassionata della sua personalità dal punto di vista umano, letterario, psicoanalitico, religioso e anche artistico.

Intanto Nigro pone Pontormo, così immediato, diretto e brutale nella verità esistenziale dei suoi appunti, in un contesto letterario molto apprezzato, tra il Bronzino poeta e il Varchi poeta e teorico dell'arte. Negli anni della maturità Pontormo si era sempre più chiuso in se stesso rinunciando a relazioni sociali e rimanendo rintanato in un «casamento da uomo fantastico e solitario». Aggiunge Nigro: «Nel quale uccellescamente si chiudeva. In alto. In una torre impraticabile, che solo una scala di legno metteva in comunicazione con il mondo. E che il più delle volte al mondo negava accesso». Delle tante osservazioni che riguardano lo stomaco e il cibo, intrecciate ad annotazioni su disegni e pitture («a dì 15 di marzo cominciai quello braccio che tiene la coregia in testa, che fu in venerdì, e la sera cenai uno pesce d'uovo, cacio, fichi e noce e once 11 di pane»), molto ha colpito quella in cui Pontormo rivela di essersi negato, selvaticamente, agli amici che vanno a trovarlo: «domenica, fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino».

Nigro sa bene che leggende come queste, talvolta anche testificate da scritti e confessioni, fanno parte della dimensione letteraria e dell'aura evocativa che riguarda alcuni artisti scontrosi e sommi, soprattutto in età contemporanea. Penso a Balthus, Lucian Freud, Antonio Lopez García. Maneggiare Il libro mio come lo scontroso testo di un personaggio alla Leautaud è una tentazione facile. Ma lo scrittore Nigro è troppo fine per ridurla in termini psiconalitici e di invenzione del personaggio. Così il diario di Pontormo con tutti i riferimenti alla sensibilità contemporanea è controcanto e integrazione, come per attutirne la perdita, degli affreschi per il coro di San Lorenzo a Firenze, ai quali Pontormo ossessivamente attendeva. E se il Varchi ne intendeva l'elevazione e il mistero teologico («Voi con chiaro pennello alto Puntormo/ fate pari all'antico il secol nostro»), il Vasari non capisce, e liquida l'impresa artistica estrema di Pontormo: «io crederei impazzarvi dentro... il tutto... è... senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e le braccia piccole; per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede punto di quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro con pienissima soddisfazione di chi mira l'altre sue pitture».
Vasari era spiazzato da Pontormo; ma Nigro riconduce gli appunti gastronomici e sanitari del pittore a una logica coerente: «La pittura di Pontormo è un “veder, pensando”: il prodotto di una costruzione mentale». E il libro è un documento senza precedenti di una condizione psicologica di solitudine reale nella quale la pittura diventa ascesi, riflessione sul destino dell'uomo che soltanto in solitudine si può compiere. Sagacemente Nigro conclude: «il libro ridonda sull'affresco, quest'ultimo sul libro»; «è nell'affresco il senso del giornale».

Ed è questo il paradosso: di un grande pittore come Pontormo ci resta il libro, residuo del corpo e dei suoi bisogni, e sono perduti gli affreschi nei quali si rispecchiava la sua anima tormentata.

Commenti