Cultura e Spettacoli

La pittura di Tiziano è sangue e vita

Finalmente una lettura completa (e mozzafiato) di un maestro che ha influenzato il futuro, da Velázquez a Pollock

La pittura di Tiziano è sangue e vita

Dove eravamo rimasti? L'estate scorsa avevo scritto di Tiziano (1485 ca - 1576) sul Giornale, per discutere l'entusiastica presentazione di un dipinto ritrovato all'Ermitage, e restaurato: una goffa Fuga in Egitto, ritenuta opera giovanile del pittore ed esposta in pompa magna all'Accademia, a Venezia. Quadro tizianesco, certamente, e mai preso troppo sul serio in passato, ma non tale da giustificare il titolo ruffiano dell'evento: «Tiziano mai visto».
Fu facile il mio commento: «Mai visto perché non è Tiziano». Eppure, osservavo che un Tiziano mai visto c'era, ed era proponibile proprio in quei giorni, ed era da sempre a Venezia. Letteralmente «mai visto», perché sull'altare di una chiesa, quella dei Gesuiti, fuori dai percorsi turistici e poco leggibile per le condizioni di conservazione: il Martirio di San Lorenzo. Su quell'altare, in quella chiesa spesso chiusa, un capolavoro mal illuminato, nero, quasi goyesco. Da Soprintendente di Venezia, io lo feci restaurare su richiesta di Lionello Puppi, studioso appassionato dell'ultimo Tiziano, con un finanziamento della Banca di Alba, e con il patto di esporlo nella città piemontese e poi all'Accademia di Venezia, finalmente ben visibile, illuminato e trionfante: un Tiziano mai visto, appunto.
Ho dovuto aspettare qualche mese perché questo accadesse; non a Venezia, ma a Roma, alle Scuderie del Quirinale, per l'accorta regia di Mario de Simone e di Giovanni Villa che hanno fatto arrivare il dipinto alla grande mostra di Tiziano (che apre domani) e lo hanno posto in apertura. Una vera, grande, tragica ouverture di Tiziano vecchio con il fuoco delle fiaccole e del rogo su cui frigge San Lorenzo. Né De Simone né Villa ricordavano che io ero all'origine della resurrezione di questo capolavoro, e hanno agito per felice intuizione, vendicando, rispetto alla mancata occasione veneziana, Tiziano, e un po' anche me.
Così come parte, tutta la mostra è mozzafiato, e non ha un solo momento di abbassamento di tensione.
Usciti dall'abisso dell'estremo martirio, come per un flashback, si riparte dagli anni giovanili e, risalendo di circa mezzo secolo, ai tempi del sodalizio con Giorgione e del primo fidiaco (come voleva il Longhi) classicismo tizianesco.
Si vedono il Cristo e il manigoldo di San Rocco che, nella incertezza della memoria, Vasari, nelle due edizioni delle Vite, riferisce sia a Giorgione sia a Tiziano, che oggi ce ne appare come il più probabile autore.
È lo spirito di quegli anni, 1510-1515, ben rappresentati, nella raggiunta autonomia del maestro, dalla Sacra conversazione della collezione di Luigi Magnani, che annuncia i grandi capolavori immediatamente successivi, l'Amor sacro e l'amor profano e l'Assunta della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Veramente un'opera gloriosa, una compiuta sinfonia. Tiziano sgombra la timidezza di Giorgione e compete con il Raffaello mai visto che gli evoca da Roma Pietro Bembo, invitandolo alla conoscenza e al confronto.
Ma nello spirito di Tiziano c'è già tutto Raffaello, sia nelle composizioni religiose sia nei ritratti, scavalcando Lorenzo Lotto, in quegli anni attivo nelle Marche.
Raffaellesca è la pala d'altare proveniente da Ancona, dove Tiziano dialoga con la Madonna di Foligno, ed è già oltre la Santa Cecilia di Raffaello a Bologna, probabilmente vista.
Ma la mostra non lascia respiro. E, superati gli aurei anni Venti (proprio del 1520, anno della morte di Raffaello, è la Pala Gozzi di Ancona, classica e intrisa di calde luci lagunari) s'avvia verso i capolavori della maturità culminanti nell'Annunciazione di San Salvador a Venezia, nella quale il colore arde senza trovare forma, in un preludio del non finito che induce il pittore a ribadire che l'opera è compiuta anche in quello stato magmatico, firmando: Titianus fecit fecit.
Per arrivare a quei gradi di calore, altri momenti incandescenti sono toccati dai due Crocifissi della Pinacoteca di Bologna e dalla maestosa Crocifissione di San Francesco alle Scale, ancora per Ancona e ancora per disturbare il tormentato Lotto. E sembra proprio in dialogo con quest'ultimo che Tiziano concepisce una delle sue opere meno viste e più spiritualmente intense: la Crocifissione dell'Escorial, prigioniera nella sacrestia che la protegge dagli sguardi di chi non sia in grado d'intenderne la tensione mistica, ai confini tra l'umano e il divino, nella dimensione da «camera», e pur così monumentale, definitiva, essenziale. Tiziano dipinge il calvario, la nuda terra, con una pittura libera e avara, lasciando emergere in più punti la tela risparmiata. Alla visione ravvicinata nessun pittore ha costruito, come questo Tiziano, la forma con il gesto, anticipando la pittura libera, alitata, di Velasquez.
Dopo questa serie fulminante di dipinti sacri, al piano superiore troviamo un altro Tiziano: quello dei memorabili ritratti e dei soggetti profani e mitologici, che si apre con un umanissimo Paolo III del Museo di Capodimonte. Un dipinto viola e avorio, miracolosamente non toccato da restauri, con l'aura dorata di vecchie vernici. Il pontefice è vecchio e stanco, curvo ma indomito: non lascerà il potere terreno anche se ne è sopraffatto. Nel suo sguardo non c'è spiritualità ma la superiorità del potere. Meravigliosa la mano nervosa, rapace. Perfetto l'allestimento: nella sala circolare il Papa è solo. Poi inizia la parata di bellezza e potere. Uomini e donne incrociano gli sguardi, si fronteggiano. I musici del Concerto ancora giorgionesco di Palazzo Pitti con la Salomè/Giuditta della Doria Pamphilj; l'Uomo col guanto, inarrivabile per forza ed eleganza, del Louvre, con la Flora degli Uffizi; il ritratto di Carlo V del Prado con la Maddalena di Palazzo Pitti.
Solitaria e sensuale, ti chiama nel suo letto la Danae di Capodimonte sulla quale cadono gli sguardi di tutti i cavalieri imperiosi e compiaciuti del loro potere. Tiziano ne coglie l'umanità e l'arroganza.
Poi la mostra arriva al suo culmine, così com'era partita, nelle opere tarde: dal Triplice ritratto, impostato sulle teste delle fiere per risalire agli istinti primari dell'uomo, al meraviglioso Autoritratto non finito, nel quale avvertiamo tutta la rabbia per la vita che se ne va, al dionisiaco Apollo e Marsia, dove il mito della musica divina si trasforma nello sfogo di una bestialità che agita, in una tempesta senza fine di forme indefinite e di colore incandescente, il racconto che ci trasmette inquietudine, dolore, tormento.


Tutta la pittura successiva, da Velázquez a Rembrandt a Goya a Monet a Renoir a Pollock, passerà attraverso quest'illimitata e inesauribile invenzione, dove la pittura si fa sangue e vita che esala fino all'ultimo respiro, come quello di Marsia, eternamente dolente sotto i ferri d'Apollo.

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