Cultura e Spettacoli

Quando la prefazione ti fa chiudere il libro

Non c'è prefazione che non ti faccia passare la voglia di leggere il libro a cui vorrebbe introdurti, e non dipende neppure dal prefatore: è come a scuola, io appena leggo «prefazione» dormo, mi fa più effetto del bromazepam. Almeno nel piccolo mondo antico della narrativa di provincia la prefazione era un simbolo di patetico rispetto, e all'autore di paese si chiedeva sempre: «chi ti ha fatto la prefazione?» e in genere l'aveva fatta il preside, il parroco, il medico, talvolta perfino qualche onorevole.
Invece oggi nell'editoria non di provincia la prefazione resiste tra i letterati, soprattutto la prefazione al classico, che è come una medaglia al valore ma tipo le patacche sull'uniforme di Gheddafi. Finché Aldo Nove prefà Nanni Balestrini e Balestrini prefà Aldo Nove passi, si meritano a vicenda, ma la verità è che la prefazione di regola è un abuso: non è giusto che stia prima dell'opera se è un'opera, e se non è un'opera è inutile prefarla. Oltre a essere regolarmente una rottura di palle, anche quando è Eugenio Montale a prefare Italo Svevo appena cominci a leggerla ti viene uno sbadiglio di senilità, per non dire di quando Arnaldo Colasanti introduce Pascoli. Ci sono anche prefazioni utili, per carità: se leggete «la premessa» di Emanuele Trevi allo Zibaldone al Leopardi di Newton Compton vi rendete conto di quanto sia obsoleto Trevi e quanto sia moderno Leopardi. Newton Compton, tra l'altro, è un gran viavai di prefatori, hanno fatto prefare perfino Voltaire da Valentino Parlato, tanto una richiesta di prefazione in Italia è come una richiesta di candidatura politica, nessuno si tira mai indietro. In fondo nella maggior parte del casi il prefatore ha un unico scopo: azzerare il libro ed esaltare se stesso. Perfino l'innocuo Pier Aldo Rovatti nella prefazione al meraviglioso Gelo di Thomas Bernhard è insopportabile: «Vorrei essere complice del lettore, mentre rallento la mia lettura e fisso in sottolineature e appunti, non senza difficoltà dato che tutto - mi pare - andrebbe appuntato e sottolineato, quel che ritengo importante o magari solo consonante con la mia sensibilità…». Scusa se sono poco consonante, Rovatti, ma chissenefrega delle tue sottolineature e sensibilità.
Ancora più impressionante leggere prefazioni di veri e pezzi da museo della critica marxista imperversare negli ET, che non c'entrano con Spielberg, sono i tascabili Einaudi e forse rendono omaggio a Rambaldi. Se per esempio vi imbattete nell'ET de Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, un capolavoro di una modernità assoluta, lo trovate infestato di tromboni e comunisti, bisognerebbe chiamare la Protezione Civile. Prima di arrivare a Huck dovete passare attraverso a un catechistico e ammuffito T.S. Eliot che vi spiega che il romanzo è bello perché il fiume è Dio, se lo davano a Bagnasco non poteva fare di meglio. Come se non bastasse alla fine c'è la postfazione di un marxista che di cognome fa pure Marx. Huckleberry Finn è un romanzo fallito, sostiene Leo Marx, perché non abbastanza rivoluzionario. Lo strepitoso finale comico del romanzo per Marx «è troppo fantasioso, troppo stravagante, e è noioso», perché si ride troppo e non si pronuncia apertamente contro l'ordine sociale. In quanto «oggi c'è particolarmente bisogno di una critica attenta alle cadute di visione morale». Io gliela farei cadere sulla testa la visione morale, ma anche Huck gli avrebbe risposto che per lui queste visioni morali «puzzavano di classe di religione e di niente altro».
Non mancano neppure le prefazioni femministe. Per dirne una clamorosa: Anna Dostoevskaja, la moglie di Dostoevskij, scrive un libro per raccontare la vita del marito, lo trovate nei tascabili Bompiani, Dostoevskij mio marito. Purtroppo la prefazione di una certa Donatella Borghesi ci avverte come la Dostoevskaja abbia perso tempo, perché si è messa al servizio di un uomo: «la vita di Anna Grigor'evna resta una vita sprecata, e il peso di questo sacrificio non è minore per la grandezza del colpevole. Le pagine di queste memorie ci rimangono come modesto e insieme lucido “esempio negativo”». Ma pensa tu, se non ora quando: arriva questa Borghesi per dire alla Dostoevskaja che è una scema perché ha sprecato la sua vita di stenografa dietro a un genio, e allora la moglie di Bersani cosa dovrebbe fare?
Stenderei un velo pietoso e possibilmente di cemento armato sulle terribili prefazioni tra i nuovi Premi Strega che hanno prefato i vecchi Premi Strega, quando i vivi si imbellettano con le ceneri dei morti: il Premio Strega Cesare Pavese con prefazione del Premio Strega Nico Orengo, il Premio Strega Anna Maria Ortese con prefazione del Premio Strega Elisabetta Rasy, il Premio Strega Primo Levi con prefazione del Premio Strega Ernesto Ferrero…
I più snob rispetto alle prefazioni sono quelli di Adelphi, esagerando al contrario: esce un libro di Faulkner e non ti dicono neppure quando è stato pubblicato la prima volta, perché per Adelphi tutto è inedito finché non lo pubblica Adelphi. Tranne Arbasino, lui può permettersi di essere contemporaneamente Adelphi e Mondadori, nel secondo caso però con annichilente prefazione di Raffaele Manica ma perché è un Meridiano, non si poteva non prefare.
Traduzioni mirabili e nessuna prefazione era la linea dura della più bella collana italiana di classici, i Classici Classici, diretta per Frassinelli da Aldo Busi.

Interpellato sulla questione mi risponde con piccolo trattato da ritagliare e conservare, e gli lascio doverosamente l'ultima parola: «Tutto ciò che non è testo dell'autore che firma titolo e copertina, in fondo: a parte una breve bio/bibliografia dell'autore all'inizio dopo il colophon e prima del titolo, se proprio non ci si voglia servire dell'aletta; niente deve frapporsi alla lettura del testo dell'autore, pertanto vanno eliminate le prefazioni, che diventano o postfazioni o devono scomparire del tutto; le postfazioni devono essere brevi, funzionali, di servizio, non devono in alcun modo avere pretese autoriali paritarie all'autore vero e proprio; se si tratta di un classico, il postfatore ci dica innanzitutto la fortuna del libro nel suo tempo, la posizione dell'autore rispetto agli apparati di potere del suo tempo, l'origine della sua economia domestica e pubblica: più numeri di spiccia sociologia e meno interpretazioni (spesso una più fasulla dell'altra); se il postfatore si sente così immiserito e defraudato, rinunci e scriva e firmi libri in proprio o vada a lavorare sulla propria pelle».

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