Cultura e Spettacoli

Ma senza partiti non c'è democrazia

Il controllo dei governati sui governanti e lo spirito civico restano fattori positivi. Però la partecipazione "totalitaria" è un pericolo

Ma senza partiti non c'è democrazia

«Il Movimento 5 Stelle - ha scritto Nadia Urbinati sulla Repubblica - non esalta la democrazia diretta. Ha intenzione di inaugurare quel che solo un ossimoro può rendere: una democrazia rappresentativa diretta, cioè senza l'intermediazione del partito politico, e con la promessa di mantenere un filo diretto via Internet \. Una democrazia rappresentativa sempre in rete. Questa è la novità più dirompente e complicata da gestire». Nel voto a Grillo, aveva rilevato sullo stesso quotidiano Barbara Spinelli, filogrillina già nel 2007 (vedi l'articolo sulla Stampa del 23 settembre 2007, «Il vero antipolitico? È il palazzo»), «c'è il desiderio del popolo di farsi cittadino, anziché massa informe, zittita, spostabile. E c'è una vera e propria esplosione partecipativa: non un fuoriuscire dalle istituzioni pubbliche, come in Forza Italia o Lega, ma una presa di parola. \ Il cittadino dipinto da Grillo non intende annientare lo Stato: “si fa Stato”, vuol essere ascoltato, contare». Le citazioni potrebbero continuare per un bel pezzo, a conferma di quanto ha scritto Fabio Raja su Legnostorto del 4 marzo, che «le sirene del M5* esercitano il loro fascino, nient'affatto discreto, verso vasti pezzi della sinistra comunista e post-comunista. Da Nicola Vendola a Dario Fo e Margherita Hack, da Asor Rosa a Stefano Benni, si sono moltiplicati negli ultimi mesi gli endorsement in favore del comico genovese e, dopo il successo elettorale del M5*, la deriva Grillina sta rapidamente coinvolgendo parti importanti dello stesso Partito Democratico».

La rivendicazione di una partecipazione libera, consapevole e responsabile, un'idea del “cittadino che si fa Stato” (lo Stato in interiore homine teorizzato da Giovanni Gentile?), la protesta contro una classe politica - e, aggiungiamo noi, dirigente - da repubblica delle banane, il fastidio per il sistema massmediatico italiano asservito ai “poteri forti”: sono tutti aspetti del pianeta grillino che spiegano il successo politico di un movimento che, tra l'altro, smentisce uno dei luoghi comuni più tenacemente coltivati dalla sinistra, quello che senza denari non solo non si cantano messe, ma non si vincono neppure le elezioni. Sennonché, accanto alle foglie di fico delle riserve per gli aspetti meno rassicuranti del M5S, i suoi cauti apologeti della sinistra mettono in luce due caratteristiche degli indignados che dovrebbero indurre i vecchi partiti a ripensare la loro natura e il loro ruolo. La prima è il controllo dei governati sui governanti, la seconda è, come sintetizza Gad Lerner in «La democrazia senza partiti» (La Repubblica del 4 marzo), «uno spirito civico, un'idea di pubblico, una spinta partecipativa che la politica non ha saputo riconoscere».

Gli intellettuali militanti non auspicano, beninteso, la fine dei partiti ma uno tsunami che ripulisca l'arena politica da quelli attuali e ridia fiato e vigore allo schieramento progressista umiliato da anni di centrodestra e di berlusconismo. Insomma quod non fecerunt iudices tocca farlo ai grillini: togliere il terreno sotto i piedi a quella che Rousseau chiamava «la volontà di tutti» (accozzaglia degli interessi più vari e “privati”) per dar libero campo alla “volontà generale”, volta a realizzare il bene pubblico. Ma la “democrazia dei moderni” non è solo quella mazziniana, «capace di dar voce nelle istituzioni alla partecipazione dei cittadini», ma un meccanismo complesso che affida ai partiti l'aggregazione delle richieste più diverse che si levano dal basso - «a destra come a sinistra» - e li traduce in programmi di governo, disponendole in una scala in cima alla quale stanno quelle più rilevanti e urgenti. I cittadini vogliono le cose più diverse (e talora incompatibili) e il compito dei partiti è quello di fissare la road map: alcuni obiettivi vengono raggiunti subito, altri rimandati, altri lasciati cadere. Se il nostro partito ci “accontenta” su un piano ma non ci convince su un altro, ci si rassegna pensando che, in un momento successivo, potrebbe cambiare linea. Al fondo, resta la fiducia in una formazione politica che condivide la nostra political culture e che è in grado di organizzare e far valere le esigenze di quanti sentono e la pensano come noi. Il partito, in altre parole, in una democrazia a norma è una polizza assicurativa o, se si preferisce, un conto nella banca del potere, che stabilizza il confronto politico e mette in agitazione il quadro politico soltanto nelle fiere elettorali, a scadenza periodica. Qui tutti gli attori erigono i loro padiglioni, che contengono ogni tipo di merce, e una volta che gli elettori-consumatori hanno fatto le loro scelte, «tutti a casa» ad attendere alle faccende private.

Una democrazia senza partiti che, in nome della partecipazione “totalitaria”, elimini de facto la rappresentanza, significa tout court il caos e l'anomia eretti a sistema: saremo continuamente chiamati a scegliere su problemi specifici (piccoli o grandi che siano) e su ciascuno di essi ci divideremo trasversalmente, rispetto agli schieramenti attuali, in una sorta di guerra di tutti contro tutti intesa a destabilizzare le istituzioni e ad alimentare climi diffusi di risentimento. Il fondamentalismo, è bene ricordare con S.P. Huntington, è un fiume in piena, tanto più pericoloso quanto più deboli o inesistenti sono gli argini in grado di controllarlo e di disciplinarlo.

E, tra gli argini, una funzione insostituibile è svolta proprio dai vilipesi (in Italia, a ragione) partiti politici, i quali in tal senso - lo hanno ben capito i nemici della «società aperta» come Margherita Hack o Dario Fo - sono forze oggettivamente “conservatrici”.

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