Letteratura

Delegittimare lo Stato ebraico è la folle moda culturale di oggi

È tempo di festa per l'aggressione verbale a Israele, per la disapprovazione, per l'indice levato, e anche per l'antisemitismo, sempre in crescita

Delegittimare lo Stato ebraico è la folle moda culturale di oggi

È tempo di festa per l'aggressione verbale a Israele, per la disapprovazione, per l'indice levato, e anche per l'antisemitismo, sempre in crescita. Lo scontro interno ha solleticato la creatività di chi non può soffrire gli ebrei, specie nella loro più importante espressione: lo Stato ebraico. Di chi dice che ne critica le politiche, ma vorrebbe in realtà vederlo sparire dalla mappa. Israele è a pezzi come un piatto rotto, dicono contenti i cronisti e i teorici dello scontro. Guai a dirgli che sono antisemiti, anche se alla prova delle tre «D» non reggono: delegittimazione, demonizzazione, doppio standard. È il momento della delegittimazione. L'antisemitismo anti Stato ebraico è ormai codificato anche dall'IHRA, un comitato internazionale formato da 35 Stati che ha definito l'odierna declinazione dell'odio più antico. La tipologia precedente era codificata nella famosa vignetta in cui Ariel Sharon mangia bambini addentandoli per la testa in stile Goya. Questa vignetta è stata ripubblicata recentemente dal Guardian. È una forma di criminalizzazione: Israele è moralmente indegno di esistere. E torna ad affacciarsi la giornalista della CNN Christiane Amanpour, sempre antisraeliana: parlando della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh ha affermato di nuovo che i soldati israeliani l'hanno ammazzata intenzionalmente anche se l'inchiesta ha escluso questa ipotesi. È un blood libel come quello di Mohammed al Dura, il bambino (forse) ucciso nel 2000 in uno scontro a fuoco: la demonizzazione ne attribuì a Israele l'omicidio, e non era vero; ma suscitò la seconda Intifada: 2000 morti per terrorismo.

Stavolta la tempesta dei media nasce dalla frattura politica interna allo Stato ebraico sulla riforma giudiziaria. Scontro verticale fra destra e sinistra, uno dei tanti. Ma le piazze, molto più che dalla riforma (se chiedi a un dimostrante sa solo che è minacciata la democrazia, ma prova a chiedergli perché) sono state mobilitate dalla vittoria della destra nel novembre 2022 e dalla conseguente formazione di una coalizione guidata da Netanyahu, con la partecipazione di due partitini nazional religiosi guidati da Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich, leader molto esibizionisti e vocali, ma di cui non si conosce nessuna tendenza fascista. La loro sola vista, il loro eloquio, le kippah sono insopportabili all'opinione pubblica laica di Tel Aviv. Non fino al punto di abbandonare il sionismo.

Però, il capo dell'opposizione israeliana Yeir Lapid, spinto da Ehud Barak, suggerisce sempre che chi ha vinto regolarmente le elezioni è tuttavia illegittimo: lo fa dichiarando pregiudizialmente, sempre e comunque, Netanyahu indegno. La stampa internazionale lo segue; a questo si aggiunge, molto popolare, la denuncia di una tribù messianica, primitiva, al governo. Sarebbero fascisti religiosi incompatibili con la costruzione di uno stato democratico e moderno. Lapid, invece, starebbe col mondo avanzato che difende la democrazia. Questa teoria è sbagliata: Netanyahu è un leader democratico, lo dimostra come ha accolto, bloccando la riforma, le manifestazioni di piazza, considerandole parte del necessario consenso nazionale. Ma qui non parleremo di lui ma della frattura sociale. Gli stessi accusati, ebrei di origine orientale e non ashkenazita, hanno vittimisticamente cominciato a qualificarsi come trascurati, discriminati, «cittadini di seconda classe», alimentando il senso di rottura, mentre gli estremisti di sinistra hanno ripetuto le loro accuse. Gli uni e gli altri hanno torto, la forza della realtà, dell'esercito, dei pericoli ma anche dei continui successi e dell'ebraismo comunque lo si viva, li riporta sempre insieme.

La spaccatura, più pesante di quella della proposta di riforma, ha prodotto una nuova delegittimazione dello Stato d'Israele. Piace molto ai giornali. Israele - si dice e si scrive - è destinato a affondare perché va a pezzi, è un patchwork artificiale che finalmente si sfalda. «Gli ebrei non sono un vero popolo», si ripete con entusiasmo e sollievo. La delegittimazione, dunque, una delle tre D, si annida nella classica teoria antisionista che Israele non esista, che il popolo ebraico non abbia sostanza storica e sociale, che sia solo una creatura virtuale. È la «creatura sionista», come la chiama il raffinato giornale italiano di politica internazionale Limes nel nuovo numero intitolato Israele contro Israele. È una tesi vecchia, la discussione se Israele sia una religione o una nazione ne è la copertina usurata dal tempo. Ma insomma chi sono questi ebrei? E la domanda classica di chi non capisce che sono tutte e due le cose, popolo e religione, in dosi diverse a seconda delle circostanze. Un popolo così unito da essere riuscito, parlando lingue diverse e vivendo in luoghi lontanissimi fra loro, a sopravvivere tremila anni sempre guardando a Gerusalemme. La scoperta che gli ebrei, spezzettati dalla politica, denunciano un'assenza di identità, è tipica delle corrente culturale postsionista, per cui l'identità sarebbe costruita a tavolino, non rifletterebbe una storia vera, sarebbe il frutto di scelte ideologiche da rettificare. Limes addirittura gioca sull'umanitarismo conservatore di Vladimir Zeev Jabotinsky per suggerire che anche lui alla fine non era quel sionista che si vuol credere.

L'entusiasmo nato in seguito al duro scontro legato alla riforma giudiziaria rende molto attivi sul campo della delegittimazione non solo l'Iran, gli hezbollah e i palestinesi; oggi, in Europa e negli Usa, un vasto ventaglio di intellettuali e media si affanna a spiegare che Israele è un Paese la cui esistenza si è indebolita, non funziona più, forse non ha mai avuto senso.

Finora la delegittimazione era stata giocata sul terreno morale. Ovvero: apartheid, genocidio, colonizzazione, razzismo... Israele deve essere cancellato perché è moralmente reprobo. I concetti di guerra e di oppressione sono i pilastri di questa accusa. Per questo tipo di teoria, tutte le oppressioni sono collegate, e gli oppressori sono i maschi, i bianchi, i poliziotti... e gli ebrei, ormai suprematisti bianchi. E in Medio Oriente, persecutori di Palestinesi. Molte manifestazioni che gridano «Kill the Jews» hanno marciato con le bandiere palestinesi.

La costruzione fittizia intrapresa già nell'ambito della Guerra Fredda presuppone una storia palestinese nazionale e un oppressore coloniale storicamente inesistenti. Ma è stata accettata, né Israele ha mai deciso di fronteggiarla come si deve. Ha preferito dedicarsi a presentare le sue ragioni, e ha contato a lungo su una falsa premessa: che se la parola Ebreo in Europa dopo la Shoah si fosse collegata col senso comune antifascista, Israele avrebbe conquistato alla fine l'opinione pubblica. Invece la forza della politica ha fatto si che il fiume scavalcasse gli argini, e di fatto l'antisemitismo si avvale invece da decenni dall'abbinamento fra la parola ebreo e del termine «occupazione» (prima dal 1948, poi dal 1967) per dimostrare che gli ebrei sono oppressori e non oppressi, attaccanti feroci e non assediati che si difendono. Una perfetta realizzazione della decisiva definizione di Robert Wistrich della «nazificazione di Israele», base nel nuovo antisemitismo. Con un triste rovesciamento dell'uso dei «diritti umani» di cui molto si è scritto.

Oggi siamo a una svolta peggiore. Peggio ancora infatti dell'accusa di sbagliare è l'accusa al popolo ebraico di non esistere a partire dalle divisioni e dalle innegabili grandi differenze di opinioni. Si attribuisce l'accensione del falò alla prepotenza di Benjamin Netanyahu, ma il premier israeliano non ha niente di personale da guadagnare dalla riforma: il suo processo sta andando a pezzi per l'insostenibilità delle accuse e per la sua fragilità giuridica. Quindi, facilmente, non ci sarà condanna. Comunque se anche nel frattempo la riforma nel modo di eleggere i giudici fosse modificata, su quindici giudici solo cinque sarebbero eletti con la riforma, e dieci resterebbero al loro posto. Nessun giudice dovrebbe dimettersi. Ci vorrebbero forse dieci o venti anni prima che per raggiunta età di pensione o motivi vari la composizione della Corte Suprema fosse politicamente modificata. Ma la sicumera conoscitiva è tipica dell'attacco a Israele, Bibi è il suo oggetto assoluto, divenuto oggetto di ogni attacco e accuse di fascismo; di fatto oggi è un conservatore liberal.

Ma Limes titola un pezzo del suo numero Israele contro Israele «Il sionismo religioso di Netanyahu», mentre nella prefazione si addentra nella delegittimazione dello Stato d'Israele con interpretazioni storiografiche complicate e molto malevole. L'editoriale del giornale intitolato «La sindrome ottomana», spinge il sionismo di destra e di sinistra nel ventre Turco, in una parte ritardata e un po' ottusa del già morente impero ottomano, un pasticcio in cui la sindrome espansionista si scontra con l'idea di tenere insieme egualitariamente gruppi etnico-religiosi occupando territori che poi devono confederarsi... Cioè, tutto sbagliato, socialismo e ottomanismo insieme, povero Ben Gurion, chissà come ha fatto a portare a casa il suo progetto imbevuto com'era di idee già definitivamente condannate allo sgretolamento. Insieme a questo troviamo qui molte sarcastiche ma dotte memorie della storia di Israele alle sue origini, da cui viene espunta, con l'accento sulla solita Uganda, la nobiltà e anche la realtà storica del ritorno alla casa dei padri fra mille impossibili aggressioni e proibizioni; espunta la presenza mai interrotta nei secoli, la maggioranza ebraica a Gerusalemme, inesistente la meraviglia della lingua ebraica ricostruita.

È una collezione di fraintendimenti che tendono tutti a dimostrare che alla domanda «Chi è Israele?» si può rispondere che è un mosaico incomprensibile, certo non uno Stato del Popolo ebraico. Insomma, si può approfittare dello scontro politico in corso per stabilire che è un insieme di «Tribù che in terra promessa si agitano, si distinguono, si rimescolano». E Limes è diligente: quante cartine punteggiate di tutti i gruppi che vivono in Israele, religiosi, ashkenaziti, sefarditi, arabi... Ma non è magnifico proprio per questo: che la democrazia di Israele abbia garantito libertà a tutti alla faccia delle politiche e delle differenze etniche dell'unione delle diaspore? Chi disegna un'Israele destinata al caos vede tutto il contrario di ciò che si vede visitando il Paese, ricco, ordinato, pulito nonostante le incredibili difficoltà, il terrorismo, i conflitti politici.

Ma il giornale spiega che «i confini non sono identificati perché se si delimitassero si spaccherebbero». Intanto non è spaccato, e i Territori sono una realtà che è semplicemente, oggi, sottratta così all'imperialismo terrorista palestinese finché ci sarà un accordo. Pensiamo a cos'è Gaza sgomberata: una rampa di lancio di missili. Ma poi, perché i confini non sono definiti? Se i palestinesi avessero concordato su una delle tante grandi proposte di pace, lo sarebbero. Non è andata così, gli insediamenti non si possono sgomberare di fronte a un doppio rifiuto (Hamas e Fatah), condito di minacce, oggi supportato dall'Iran.

I paradossi non finiscono: la natalità è un guaio perché favorisce i religiosi, Israele non ha rappresentatività perché non ha diritto di rappresentare la diaspora. Ma Israele rappresenta i suoi cittadini e ogni ebreo può diventarlo se vuole. Ogni ebreo è parte del popolo ebraico: se vuole, diventa anche cittadino. Popolo, lo è di già, e anche religioso se gli pare. Se non gli pare, solo popolo.

Ma quello che interessa è dimostrare che il popolo ebraico non c'è e la destrutturazione si svolge in molte pagine di asprezza linguistica rivelatrice: «Le acrobazie con cui Ben Gurion e successori hanno inventato e poi evoluto Israele in potenza regionale e avanguardia tecnologica non ne garantiscono il futuro». «La creatura sionista è scossa da una crisi identitaria»: Nasrallah si è espresso proprio così davanti alle manifestazioni dei giorni scorsi.

Questa illazione, l'abbiamo letta declinata variamente ovunque: New York Times, Le Monde, El Pais, Guardian, Corriere della sera, la Repubblica. Al centro sempre le colpe di Netanyahu: il suo governo, scandalo immenso, ha proposto una legge di riforma di una vecchia struttura palesemente troppo potente e autoriferita. Ma allora è un fascista! Chi ha letto la proposta di legge, che gli piaccia o no e ormai comunque è in un cassetto, diventa il segnale certificato che Bibi intende trasformare Israele in un potere assoluto, e esserne il re. Bibi ha «strappato il sipario che celava la montante sofferenza delle tribù israeliane». Si da per certa «la vena autocratica, lo scontro frontale imminente, la fusione del nocciolo della sicurezza, l'intelligence e l'esercito». Abbonda la citazione del discorso dell'ex presidente Reuven Rivlin sulle «quattro tribu»: arabi, laici, religiosi, ultraortodossi. Rivlin non parlava certo di destrutturazione di Israele, ma qui lo Stato Ebraico non ha futuro perché «è uno stato costruito sulla paura». Di nuovo, Hezbollah non avrebbe detto meglio. E pensiamo semplicemente: peccato che chi scrive non abbia mai vissuto in Israele, nel coraggio civile come forma di vita. Basta pensare alla gente di Sderot, dove fioccano i missili da Gaza, si corre in cantina coi bambini, e nessuno lascia le case. Non si sente mai parlare di fuga, di spostamento delle famiglie tormentate dalla persecuzione palestinese.

Per il 75esimo l'Economist, più raffinato e subdolamente distruttivo, solleva dopo una descrizione delle fratture in corso la questione chiave: l'emarginazione della questione palestinese! Ecco che torna e viene di nuovo descritto il problema come una colpa di Netanyahu; né l'Economist, né le Monde, né il Guardian, né El Pais, né Repubblica né Limes, si accorgono della truffa bellicistica di Hamas sulla rottura dello status quo sulla Spianata delle Moschee; nessuno analizza la tragedia subita, mai voluta, che per Israele è stato il fallimento dei tentativi di pace; nessuno verifica il numero mostruoso degli attentati terroristi e della pervasività della propaganda dall'età scolare che rifiuta la presenza del popolo ebraico, che ha impedito la pace con l'incitamento che fa vittime fra i giovani «shahid» quanto lo stipendio che viene loro dato dall'Autorità Palestinese; nessuno ricorda mai che Ramallah e Gaza sono due, non una entità palestinesi, separati da odio e reciproci morti assassinati buttati dai tetti e fucilati per strada.

Se Israele sia un popolo o una religione, dicevamo, è una questione vecchia come il mondo, se ne parla dall'esilio Babilonese. Se abbia al suo interno scontri e punti di vista che confliggono è una domanda addirittura ridicola. Certo che sì. Ben Gurion, socialista, ha un ruolo gigantesco nella storia del popolo ebraico, ma sono innumerevoli le sue reminiscenze bibliche nel costruire lo Stato e totale la sua convinzione che la tradizione ebraica sia la pietra angolare della nazione; Meir Dizengoff primo sindaco di Tel Aviv nel 1911, superlaico, si dette cura di costruire subito le sinagoghe. Gli ebrei religiosi nei secoli sono stati indispensabili per tenere accesa la fiaccola del popolo ebraico, senza la loro indefessa conservazione della lingua, della filosofia, del rito fino nei Campi di Sterminio, l'ebraismo sarebbe morto. Così è stato dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e anche nel XIII secolo, uno dei periodi peggiori della storia ebraica; così attraverso tutti i roghi, i pogrom, le cacciate, e poi la Shoah. Un popolo, una religione da ciascuno praticata a suo modo fra reciproche proteste e insulti. Dopo il ritorno in Francia nel 1360 solo dedicandosi al compito laico di rimettere insieme la comunità Rabbi Mattathia ben Jossef è riuscito a ricostruire il tessuto slabbrato dalla pestilenza con la conseguente ondata di antisemitismo. La comunità era laica, la religione ebraica. Gli ebrei religiosi e laici sono sempre stati indispensabili gli uni agli altri nella tessitura di quello che non si capisce quando le differenze si leggono alla rovescia: per gli ebrei le differenze sono la ricchezza che li ha aiutati a pensare e anche a vincere le guerre. Così è la mappa delle culture dei paesi democratici: un mosaico.

L'Economist si avventura fino ai saggi consigli condivisi dal resto della stampa liberal: liberarsi di Netanyahu è il suo astuto obiettivo. «Il futuro è legato al sistema politico... in cui si disegni un riallineamento dei partiti che dia più forza alla maggioranza centrista ciò che richiede l'uscita di scena del divisivo mister Netanyahu». Ah, era così semplice? E allora perché dedicare a Israele tanto studio?

La risposta purtroppo è nella interazione malata fra incontrollabile fastidio verso lo Stato degli ebrei, la sorpresa perdurante e stizzita per il suo incredibile successo, e la determinazione a ucciderne (politicamente) uno dei maggiori fautori. La delegittimazione di Israele va con quella di Netanyahu. Ma l'attacco cieco distrugge tutta la vera possibilità dell'osservazione critica effettiva sulla situazione mediorentale. Possibile che si sia così distratti da non capire che i Palestinesi sono i primi fautori del loro destino, e che Israele ha sempre cercato la pace, anche se una pace sicura, ovviamente? Meglio ricordare che ad ogni vigilia di guerra i Paesi arabi mentre si coalizzavano per battere lo Stato degli ebrei lo dichiaravano già finito, a pezzi, un mosaico insensato. E poi...

Non è mai andata così.

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