Difesa

In Australia scatta la tattica dell'istrice: mine subacquee per fermare la Cina

Canberra ha acquistato circa 5mila ordigni di ultima generazione prodotti dall'azienda italiana Rwm S.p.a. Le mine sono dotate di sistemi di riconoscimento dei vascelli nemici e contengono mezza tonnellata di tritolo ciascuna

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Dopo Taiwan anche l’Australia ha deciso di armarsi per contrastare la minaccia della flotta cinese sempre più moderna e numerosa che avanza inesorabilmente verso le sue coste. Uno scontro diretto tra le due forze navali vedrebbe la sconfitta di Canberra, che ha quindi optato per la strategia dell’istrice. Il governo laburista di Anthony Albanese ha firmato il contratto d’acquisto di oltre 5mila mine subacquee di ultima generazione, che creeranno un vero e proprio muro esplosivo attorno ai 19.600 chilometri coste e ai quattordici porti principali.

Dobbiamo diventare una fortezza e avere armi sufficienti a convincere i rivali a rinunciare ad un attacco”, ha affermato il ministro della difesa Richard Marles. Questi ordigni saranno il pilastro della difesa australiana contro Pechino nel prossimo ventennio. Gran parte del contratto è coperta dal segreto, ma la spesa totale dovrebbe essere attorno ai 600 milioni di euro, il prezzo di una singola fregata lanciamissili.

Questo tipo di armi è stato usato per l’ultima volta nel 1991 dagli iracheni, durante l'operazione Desert Storm. Le trappole piazzate nel Golfo Perisco riuscirono a neutralizzare l’incrociatore americano Princeton e la portaelicotteri Tripoli, oltre a rendere impossibile uno sbarco diretto dei Marines in Kuwait. La successiva stagione di pace ed intensificazione dei commerci globali via mare ha impedito che le acque del mondo fossero tappezzate di ordigni, ma la guerra in Ucraina e le continue provocazioni cinesi attorno a Taiwan hanno cambiato le cose. I Paesi del Baltico, la zona dove sono più alte le tensioni tra Nato e Russia, hanno iniziato a studiare piani per minare gli accessi ai porti da cui dipende la sopravvivenza della loro economia e la decisione dell’Australia potrebbe imprimere un’accelerazione alla corsa agli armamenti sottomarini.

Sono rimaste in pochi, però, i produttori di questo genere di sistemi bellici. Canberra si è dunque rivolta alla Rwm S.p.A di Ghedi, in provincia di Brescia, parte del gruppo Rheinmetall Italia. L’azienda era già finita nell’occhio del ciclone per la vendita di bombe all’Arabia Saudita e agli Emirati durante la guerra in Yemen. Nel caso dell’Australia, un’alleata Nato, non dovrebbero esserci polemiche.

Le mine acquistate dall’ex colonia britannica non hanno nulla a che fare con le vecchie sfere metalliche ancorare ai fondali marini che si possono vedere nei film sulla Seconda guerra mondiale. Oggi gli ordigni subacquei sono di forma cilindrica e lunghi circa due metri, con all’interno sistemi elettronici che hanno memorizzato il rumore generato dalle eliche dei bersagli, la massa magnetica degli scafi, la pressione dello spostamento d’acqua che generano al loro passaggio e altre caratteristiche fisiche utili per stabilire con certezza l’identità del vascello entrato nel loro raggio di azione. Le mine sono impostate per far detonare le loro carche da mezza tonnellata di tritolo solo se tutti questi fattori coincidono con l’obiettivo, generando un’onda d’urto letale per qualunque imbarcazione.

Questi sistemi di riconoscimento multipli sono necessari per evitare di distruggere pescherecci, navi mercantili pacifiche e vascelli alleati. Inoltre, sono in grado di neutralizzare le tattiche di sminamento, che spesso fanno uso di droni in grado di imitare le tracce sonore di un particolare tipo di incrociatore o corvetta. La Difesa australiana dovrebbe aver acquistato due modelli: la Murena, dotata di triplice sensore di avvistamento, e l’Astenia, che ne ha cinque.

Questi ordigni possono essere sganciati anche da aerei e sottomarini, in modo da celarne la posizione ai satelliti, e sono in grado di operare ad una profondità compresa tra i sei e i 300 metri.

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