Ds e Margherita separati in casa da un’etichetta

Federico Guiglia

«Caravanserraglio» - avverte il vocabolario della Treccani - viene dal persiano e vuol dire «carovana di cammelli». In senso figurativo ha acquisito il significato, notoriamente più divulgativo, di «luogo di gran confusione, costruzione ibrida». Non si sa se, nell’evocare quest’immagine per liquidare l’idea del Partito democratico, l’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita abbia inteso riferirsi all’etimologia, cioè alla proverbiale e maggiore facilità con cui un cammello possa passare attraverso la cruna di un ago, piuttosto che possa nascere il Partitone fra Ds e Margherita. Oppure se Da Mita abbia proprio desiderato etichettare di caotico questo cantiere politico che è aperto da una dozzina d’anni, ma che continua ad apparire un luogo, appunto, «confuso e ibrido». Lavori in corso, ma nessuno ha ancora capito che cosa ne verrà fuori né quando.
Certo è che la discussione sul partito che non c’è, ma che per una parte del centrosinistra sarebbe bello ci fosse, sta entrando ormai nel vivo. Data la lunga gestazione, qualcuno potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo: quei «Partiti democratici» che altrove esistono da anni si stanno evolvendo verso esperienze più nuove e sempre meno ideologiche. Le sinistre copiano i lasciti migliori del conservatorismo e del liberalismo senza alcun prurito politico ma con pragmatismo e realismo. Tutto il contrario di quel che invece s’ode nel tira e molla «di bandiera» fra Ds e Margherita, fra unitari e federali, tra chi sogna il partito unico con un giornale unico, con gruppi parlamentari e regionali unici, e chi sostiene l’ipotesi di restare separati per poter rimanere insieme.
La sfida più difficile nella coalizione alla ricerca dell’identità è quella di come conciliare riformismo e radicalismo, ossia come far convivere chi considera opportuna la revisione della previdenza e della spesa sanitaria in Italia (Piero Fassino) con chi bolla come «irricevibile» tale proposta (Oliviero Diliberto). Oppure come mettere insieme quelle anime verdi, pacifiste e comuniste che reclamano il «via dall’Afghanistan» per i nostri soldati col ritiro definito «impensabile» dal leader della Margherita, Francesco Rutelli. Anche il linguaggio ultimativo rivela le contrapposizioni politiche di principio che dividono la maggioranza, e che vanno ben al di là di una stucchevole guerra delle parole.
Sarà per questo che nel confronto/scontro fra riformismo e radicalismo, che tanto sembra appassionare chi ama dividere il capello in quattro (anzi, in nove per riferirci alle forze che ruotano pro o contro il progetto del Partito democratico), sta prendendo piede il compromesso non storico ma, più modestamente, linguistico: il «riformismo radicale». Una formula che piace a diessini come Pierluigi Bersani, che ne è perfino teorizzatore, ma che non dovrebbe dispiacere ai retori del «senza se e senza ma». Un modo per non sciogliere il nodo della contraddizione, per evitare di doverlo prima o poi tagliare.
Tutto ciò potrà forse aiutare questa telenovela del Partitone a proseguire le sue scene senza troppe polemiche interne e con pochi sussulti esterni. Processo lento ma non inesorabile, tuttavia. Perché alla puntata finale e decisiva non si potrà arrivare da riformisti e allo stesso tempo da radicali con la stessa grazia di un cammello che si muove nel deserto: terra di nessuno.
f.

guiglia@tiscali.it

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