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E De Magistris il castigamatti si ritrova imputato

Segnarsi la seguente data: 21 febbraio 2011, san Pier Damiani, quarto anniversario della caduta del secondo governo Prodi. Alle 9 precise di quel lunedì mattina Luigi De Magistris, ex pubblico ministero, ora eurodeputato dell'Italia dei valori, si dovrà presentare davanti al tribunale di Salerno, prima sezione penale, aula C di udienza. Imputato in un processo a suo carico per il reato di omissione in atti d'ufficio quand'era magistrato a Catanzaro. Il rinvio a giudizio è stato deciso dal giudice dell'udienza preliminare di Salerno Dolores Zarone. Non una trascuratezza qualunque, fa presente l'avvocato leccese Felice Rigliaco, legale della parte offesa, «ma un'omissione di indagini ordinate da un gip su presunte collusioni fra magistrati di Lecce e di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere all'estorsione al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente».
Che cos'avrebbe combinato De Magistris, soprannominato «Gigineddu flop» per l'esito fallimentare di gran parte delle inchieste a lui affidate ma assurto al ruolo di castigamatti ora che veste la casacca dipietrista? L'accusa è di non aver indagato su due colleghi della procura di Potenza a loro volta denunciati da un commerciante che riteneva di non aver avuto giustizia da loro. «La casta è casta», commenta l'avvocato Rigliaco. E probabilmente l'inchiesta che gli era stata affidata non garantiva a De Magistris il «grande risalto mediatico» ottenuto grazie al fascicolo «Why not» che (secondo il giudice che recentemente ha demolito il fantasioso castello accusatorio) gli aveva regalato enorme notorietà.
La vicenda che riporterà De Magistris in un'aula di giustizia seduto al banco degli imputati e non a quello della pubblica accusa ha origine qualche anno fa a Nardò (Lecce), dove un commerciante vittima di usura perse lavoro e casa: Luigi Stifanelli dormiva in auto e fu il primo cittadino italiano che ebbe assegnata la residenza ufficiale non tra quattro mura ma su quattro ruote. Ritenendo di non avere avuto giustizia, l'uomo denunciò i magistrati salentini che, a suo dire, erano responsabili di ritardi e omissioni a suo danno: «Sono vittima e destinatario di decisioni e condotte gravemente persecutorie e di un vero e proprio accanimento giudiziario».
Per competenza territoriale, toccava ai magistrati di Potenza indagare sui colleghi di Lecce. Il fascicolo toccò a Roberta Ianuario, pubblico ministero ora trasferito a Napoli, e Alberto Iannuzzi, all'epoca giudice per le indagini preliminari passato in corte d'appello. Il caso fu archiviato. Stifanelli non si arrese: è un tizio che in fatto di querele non guarda in faccia nessuno, ha denunciato il sindaco di Nardò, un assessore, giornalisti come Cristina Parodi. Partì un esposto anche contro le due toghe lucane che planò sul tavolo di De Magistris, in quanto Catanzaro ha la competenza territoriale sui guai dei magistrati di Potenza. Era l'inizio del 2007, il sostituto calabrese stava architettando il castello di accuse contro Prodi e Mastella e il 12 marzo chiese di archiviare il fascicolo a carico dei colleghi. In ottobre il gip chiese ulteriori indagini ma l'invito fu lasciato cadere: c'erano reati più urgenti di cui occuparsi.
Siccome non c'è due senza tre, il commerciante ha denunciato anche De Magistris. E questa volta non c'è stata archiviazione ma il processo. Il gup Zarone nel decreto che dispone il giudizio descrive così l'operato del nuovo idolo giustizialista: «Quale sostituto procuratore in servizio presso la procura della Repubblica di Catanzaro e assegnatario del procedimento penale (sui colleghi lucani, ndr), omettendo di procedere alle indagini ordinate dal gip presso il Tribunale di Catanzaro, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine di sei mesi fissato dal gip».


«Dagli atti di indagine - si legge ancora nel decreto - sussistono sufficienti elementi per sottoporre l'imputato al vaglio dibattimentale e non sono emerse ragioni per pronunciarne il proscioglimento».

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