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E i pm raccomandavano: non fate nomi di politici

Una montagna di documenti, riscontri bancari e interrogatori: ma la Procura non s’è mossa

E i pm raccomandavano: non fate nomi di politici

Gian Marco Chiocci - Luca Fazzo

Milano - Forse è venuto il momento di chiedersi perché la Procura di Milano non ha mai indagato sui report del presunto tesoro all’este­ro dei Ds. Perché ha immediata­m­ente rubricato la pratica scottan­te a «fatti non costituenti reato» la­sciandola dormire in un cassetto sei mesi, per toglierla dal letargo solo con l’entrata in vigore della legge Mastella che imponeva la di­struzione dei dossier raccolti ille­galmente. Perché non s’è mossa d’ufficio per accertare se fosse ve­ra o fasulla quella montagna d’in­vestigazioni finanziarie svolte in ogni angolo del pianeta (bonifici bancari, saldi, telex, corrispon­denze riservate, numeri di conti correnti). E soprattutto occorre domandarsi perché, durante gli interrogatori, i pm si sono racco­mandati con gli indagati di non pronunciare i nomi dei politici coinvolti (che in realtà, sfuggiti al controllo, comparirebbero nelle registrazioni degli interrogatori ma non nelle trascrizioni dove sa­rebbero stati «omissati»).

Bisogna, insomma, chiedersi perché il giudice preliminare Ma­r­iolina Passaniti che rinviò a giudi­zio Cipriani e soci sentì la necessi­tà di denunciare così le gravi omis­sioni dei pm sul file Oak Fund: «L’autorità inquirente assai pro­babilmente non ne aveva percepi­ta neppure la portata, tanto che la notizia medesima relativa alla operazione New Entry era stata se­parata dal procedimento princi­pale, con iscrizione a cosiddetto modello 45, quali atti non costi­tuenti reato, ed inviata in data 12.5.2006 al procuratore in sede per le sue determinazioni».

Il giudice fa riferimento a quan­to gli imputati rivelano a verbale, e proprio dalla lettura degli inter­rogatori viene spontaneo porsi un’ultima domanda: se sulla base di un dossier non è stato ritenuto automatico aprire un’inchiesta, perché non lo si è fatto nemmeno alla luce delle dichiarazioni rese da chi quel dossier lo ha commis­sionato (Tavaroli), assemblato (Cipriani) portato a conoscenza dei vertici di Botteghe Oscure (Marco Mancini, ex capo del con­trospionaggio del Sismi, amico di Tavaroli e Cipriani)?

Ecco. Partiamo proprio a qui, dall’ex responsabile del contro­spionaggio Sismi, che il 14 dicem­bre 2006 ai pm rivela come «nel 2003 seppe che Cipriani era in con­dizione di avere concretamente nomi di società all’estero ricondu­cibili a personaggi della sinistra, specificamente dei Ds. Così andai dal mio superiore, il generale Pol­lari, che mi invitò a parlarne con il senatore Nicola La Torre (braccio destro di D’Alema, che ha negato, ndr ) il quale mi disse che erano fesserie». Altro indagato, altro ver­bale. Giuliano Tavaroli racconta di aver ordinato gli accertamenti poi effettuati dalla struttura di Ci­priani. Marco Tronchetti Provera, interrogato come testimone du­rante l’udienza preliminare, riba­disce la linea che difende ancora oggi: «L’interesse a sapere se Oak Found, o meno, fosse qualcosa, di­ciamo, legato a Tizio o a Caio, per me era nullo: io avevo acquisito un’azienda e gestivo un’azienda, non m’interessava che cosa c’era dietro». Aggiunge Tronchetti: «Ta­varoli mi disse che poteva avere accesso a delle carte relative a que­sto fondo, che faceva capo al presi­dente D’Alema e ad altri, e gli dissi che, se c’erano carte che avevano valenza dal punto di vista giudizia­rio, le portasse alla Procura».

Ma quale sia la genesi del dos­sier, chi lo abbia ordinato, è a que­sto punto quasi marginale. Il te­ma è: le notizie contenute nel dos­sier sono vere? E qui la situazione si fa incresciosa. Tavaroli, in una intervista a Repubblica , parlando del fondo fa i nomi di Fassino e di altri personaggi (che smentisco­no) spiegando che li avrebbe volu­­ti fare anche a verbale: «Ma il magi­­strato - racconta Tavaroli - mi ha detto no, non scriviamo nomi sul verbale, diciamo esponenti politi­ci ». Stesso discorso per l’indagato Cipriani «incaricato da Tavaroli ­racconta il detective - di scoprire se dietro Oak Fund vi fosse un par­tito politico». Nel bel mezzo del suo interrogatorio Cipriani chie­de conto al pubblico ministero ­«che in precedenza mi si era racco­mandato di non fare nomi di poli­tici » - di una carta mancante fra quelle che via via gli vengono con­­testate: il documento (macchia­to) col nome di D’Alema. Il pm re­plica che quel foglio non c’è in at­ti. Cipriani insiste. «Guardate me­glio ».

Il pm è irremovibile. Cipria­ni pure. L’impasse è rotto dal ma­resciallo dei carabinieri che esce dalla stanza dell’interrogatorio per rientrarvi di lì a poco: «Ha ra­gione Cipriani, il foglio c’è, è que­sto ». C’era, dunque. Ma non si è indagato per capire se fosse vero o falso, come il resto del dossier. «I pm - sbotta a giugno il detective privato, chiacchierando col Gior­nale - mi dicevano: lei la fa facile, le basta una fotocopia, a noi inve­ce servono rogatorie, timbri, uffi­cialità, le Cayman non risponde­ranno mai ». Al che Cipriani avreb­be risposto: «Guardate che questa storia dei Ds e dell’Oak fund mica si svolge tutta alle Cayman. Ci so­no personaggi che sono qui, in Ita­lia. Ce n’è uno, in particolare, ha presente il Compagno G di Mani Pulite? Ecco, è un altro come lui. Lo chiamate, lo interrogate e dite­gli pure che Cipriani di avere le prove che dietro quel fondo c’è proprio lui, e se vuole mi quereli pure. Gli diedi il nome, ma non lo hanno mai interrogato». Lo abbia­mo rintracciato noi.

È nell’artico­lo qua sopra.

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