Politica

E QUELLO DEI BUGIARDI

È un irriconoscibile Montanelli quello che vien fuori dalle commemorazioni, dalle memorie e dai ritratti che si susseguono nell’occasione del centenario della sua nascita. Un Montanelli nei panni di Venerato Maestro - con le maiuscole da lui detestate - che sembra abbia vissuto non per il giornalismo (alla sua autobiografia, curata da Tiziana Abate e pubblicata da Rizzoli, volle dare per titolo: «Soltanto un giornalista». Soltanto), ma per muovere guerra a Silvio Berlusconi. Guerra poi vinta sabato 8 gennaio del 1994 sventando il golpe del Cavaliere che dopo aver fatto irruzione nelle sacre e intangibili mura di via Gaetano Negri rivolgendosi alla redazione insolentemente proclamò: «D’ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica». Questa almeno la versione dei fatti che ne dà la vulgata - dapprima messa in giro da Federico Orlando e successivamente fatta sua da Marco Travaglio - alla quale il giornalismo democratico scrupolosamente si attiene. Proprio ieri, per celebrare a modo suo il centenario della nascita di Montanelli, l’Unità dedicava un’intera pagina al fallito golpe riprendendo quanto ne scrisse Travaglio in «Montanelli e il Cavaliere», da tutti i sinceri democratici ritenuta l’unica veritiera ricostruzione dei fatti. E allora cominciamo col dire che quell’8 gennaio del 1994 in via Gaetano Negri Travaglio non c’era. Non era presente, non fu testimone degli avvenimenti che vi si svolsero. Il suo resoconto è dunque basato su testimonianze, su rivelazioni, indiscrezioni, confidenze, estratti di articoli, di interviste e di libri. Riproduce anche qualche passo della mia biografia di Montanelli, naturalmente per smentirmi. Quello di Travaglio è dunque un minuzioso, implacabile copia incolla - procedimento del quale egli è maestro - che tuttavia presenta delle falle inaspettate da chi ha sempre vantato il proprio rigore e il religioso attaccamento al principio della completezza dell’informazione. Si dà infatti il caso che nell’enumerare le prove a carico di Berlusconi, egli dimentichi l’intervista rilasciata da Montanelli - 25 marzo 2001 - a Laura Laurenzi della Repubblica. Nella fattispecie questo passo: «Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io». E che altro poteva dire, Indro? Quel giorno ero con lui, nella sua stanza e non in veste di visitatore, ma di amico, di confidente, di persona con la quale divideva le sue giornate. Di quel sabato divenuto poi «storico» parlammo e riparlammo per un pezzo, ripercorrendolo minuto per minuto, battuta per battuta. Non poteva non concordare con la versione che in seguito ne diedi e questo perché era anche la sua, di versione. Se avessi mentito m’avrebbe tolto il saluto, mi avrebbe fatto sapere che mi disprezzava, che rinnegava la nostra lunghissima e saldissima amicizia. Invece niente di tutto ciò.

Ora devo dare un dispiacere ai molti che seguitano a pensare che l’8 gennaio 1994 la redazione del Giornale era riunita per dibattere sulla libertà di stampa, sull’indipendenza dall’editore e dai suoi scherani, sul ruolo di Silvio Berlusconi e sulla salvaguardia della direzione minacciata di mordacchia. No, quel giorno la redazione si riunì in assemblea per chiedere soldi. Le così dette nuove tecnologie - il computer - si erano imposte in tutte le aziende editoriali e il Giornale era l’unico a non averle ancora adottate. Erano lì, pronte, ma la redazione sbarrava loro il passo, disposta a cederlo in cambio di un aumento in busta paga. «Ma come - replicava l’amministratore Amedeo Massari - io vi faccio un favore, vi rendo il lavoro più facile e voi mi chiedete in cambio dei soldi?». Ragionamento che non avrebbe fatto una grinza se le altre testate non l’avessero concessa, quell’«indennità nuove tecnologie», creando un precedente al quale la redazione si attaccava. Fu un lungo braccio di ferro. Da un lato la proprietà che intanto aveva congelato ogni investimento (e Dio sa quanto bisogno ne aveva il Giornale), dall’altro il comitato di redazione intenzionato a non mollare. E siccome il tempo trascorreva senza che s’aprisse uno spiraglio, cominciò a prender corpo l’idea - rivoluzionaria per un giornale come il nostro dove mai si erano incrociate le braccia - di proclamare uno sciopero. E questa «opzione di lotta» figurava nell’ordine del giorno dell’assemblea dell’8 gennaio 1994.
Com’era costume da noi, i redattori non si presentarono in gran numero. Ovviamente Montanelli, che già di suo detestava i riti sindacali ma che in ogni modo se ne doveva tenere distante perché questo impone al direttore l’etichetta giornalistica, restò nella sua stanza. Così Biazzi Vergani, impegnato a fare il giornale nonostante le assenze. E così Federico Orlando. Solo più tardi si sarebbe scoperto agitatore di folle: al momento restava l’uomo d’ordine che era sempre stato. Oltre tutto era impegnato a concordare un fondo con un certo Ciaurro, il sindaco di una cittadina umbra ritenuto da Orlando il più autorevole degli opinionisti. Ma questa è un’altra storia.

Fatto sta che nel bel mezzo del dibattito assembleare giunse al comitato di redazione la notizia che Silvio Berlusconi avrebbe volentieri parlato ai giornalisti. Il comitato si rivolse allora a Biazzi Vergani chiedendogli se la direzione avesse nulla in contrario e Biazzi ne informò Montanelli che rispose: «Silvio faccia quel che gli pare» (aggiungendo poi, privatamente: «Speriamo che porti le palanche. Se non lo fa è un bischero»). Avuto il primo dei nulla osta, il comitato richiese il secondo e definitivo all’assemblea, la quale non solo rispose sì, sentiamo cos’ha da dirci, ma espresse soddisfazione per quell’intervento diretto che certo avrebbe favorito la ripresa della trattativa e, in sostanza, il pagamento dell’agognata indennità. Quindi, per riassumere: nessun blitz, nessun colpo di mano o soperchieria o golpe da parte di Berlusconi. Ma tutto secondo le regole della buona educazione e in conformità del protocollo sindacale. Pura menzogna è dunque quanto riferisce la vulgata e cioè che alla richiesta di Berlusconi Montanelli abbia risposto: «Non se ne parla nemmeno». Ho qualche acciacco, ma le orecchie le ho ancora buone e buone le ha Biazzi Vergani e quel diniego non lo abbiamo udito. Senza dire che privo del gradimento il Cavaliere avrebbe parlato al vuoto perché al suo arrivo l’assemblea si sarebbe sciolta illic et immediate.

Travaglio (che non era presente) sostiene che nel corso del suo intervento Silvio Berlusconi abbia detto: «D’ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica». In un suo rancoroso e meschino libello, Federico Orlando (che non era presente) sostiene invece che abbia detto: «O con me o con Montanelli». Balle. Balle sesquipedali. Ecco come andarono le cose: a un collega che gli chiedeva «Politicamente, come combatteremo noi contro queste grosse coalizioni (intendeva i tre o quattro maggiori quotidiani), con un giornale che chiude le sedi estere, con un giornale che fa i prepensionamenti, con un giornale in stato di crisi? Andremo alla guerra con un’arma spuntata?», Berlusconi rispose, come registrato dal verbale: «Io credo che se il Giornale darà segni di voler combattere questa battaglia, di volerla combattere con una tattica e una strategia adeguate alle posizioni degli altri, non mancheranno assolutamente i mezzi per un rafforzamento della linea del Giornale. Credo che dobbiate mettervi d’accordo su questo». Questa frase fu intesa in due modi o meglio, fu intesa in due modi l’espressione «questa battaglia». Chi l’interpretò come battaglia per far fronte alla concorrenza e chi come battaglia politica, la sua, sua di Berlusconi, da poco «sceso in campo». Vedendoci, in questo secondo caso, la volontà di piegare ai suoi interessi politici, ricattandola, la redazione.

Il giorno appresso, domenica 9 gennaio, Montanelli era a cena da Berlusconi. Ne tornò deciso a dimettersi, cosa che fece subito. Prese quindi congedo dalla redazione annunciando il prossimo varo una «scialuppa di salvataggio» dove imbarcare quanti volevano seguirlo. Fatto ciò Montanelli si chiuse nel suo ufficio dove mi affrettai a raggiungerlo, trovandolo seduto al suo scrittoio, gli occhi chiusi, le mani aperte poggiate sulla Lettera 22. «È fatta», mi disse. «E adesso?». «Si ricomincia con La Voce», rispose, «ma tu resta: i ragazzi non devono rimanere abbandonati a se stessi e la barca va portata avanti. L’abbiamo varata noi. E poi so che per via di Federico (si riferiva a Federico Orlando) non ci verresti». «Come ti senti?», gli chiesi. «Come Mussolini al Gran Sasso». Intendeva dire d’aver timore di essere liberato da chi non desiderava fosse il suo salvatore.

Timore fondato.

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