Letteratura

Ecco gli scrittori (pochi) che hanno raccontato la paura del lockdown

I momenti più duri del Covid-19 sono stati come rimossi. Il trauma ha creato silenzio

Ecco gli scrittori (pochi) che hanno raccontato la paura del lockdown

Che fosse difficile ricavarne dei film, era abbastanza palese. Come si faceva a far recitare gli attori con la maschera in faccia? Infatti, i pochi casi cui abbiamo assistito, il malriuscito Lockdown all'italiana, o il ben più strutturato 8 Rue de l'Humanité, si svolgevano in casa o in un cortile condominiale. Stiamo parlando della segregazione forzata patita per via del covid.

Eppure, anche nella letteratura, a tre anni di distanza, se ne trovano pochissime tracce. Possibile che gli scrittori, per definizione testimoni e interpreti del proprio tempo, ne abbiano parlato così avaramente? Sì, qualche parola sporadica appare qua e là, ma in contesti in cui si parla d'altro. Pensiamo a Tasmania di Paolo Giordano (che pure sull'epidemia si era espresso diffusamente e ogni giorno per settimane, per mesi). C'è un mezzo accenno alle «pandemie», previste da uno studioso di fantasia: «- lo disse, eccome se lo disse! - ». Proprio così, fra due trattini, in pratica fra parentesi. E basta, liquidato l'argomento.

Giuseppe Genna se n'è occupato e senza riserve, in Reality (Rizzoli, pagg. 320, euro 19). Un instant book, uscito già nel luglio 2020 con l'intento di battere il ferro finché era caldo. Peccato che sia una cronaca enfatica e magniloquente. L'io narrante si aggira nella Milano vuota, violando le restrizioni con la scusa di essere «uno scrittore». Un pretesto nemmeno tanto sballato, a pensarci.

Gli scrittori avrebbero anche potuto azzardarsi a mettere il naso fuori di casa, sfidando la multa, il prezzo della loro libertà di informarsi. Tuttavia, aver affrontato frasi come «l'epidemia sarà evidente e debordante e l'abisso risulterà pieno e la tenebra interiore ricongiunta con la profonda oscurità del tutto», oppure «Il pericolo è ovunque e la città sembra una bocca cariata, una rada selenica, bombardata come un abitato siriano» ci si sente peggio che aver avuto la febbre a 40. Il lettore più di recente ha incontrato un'alternativa ironica nelle pagine di Marco Presta, noto conduttore radiofonico di Rai Radio 2; lui ha scritto un romanzo basato su su uno stile umoristico. Il prigioniero dell'interno 7 (Einaudi, pagg. 184. Euro 12) è la storia di Vittorio, giornalista satirico, trovatosi a dover condividere la clausura con la fidanzata e con una serie di condòmini bizzarri. Un tentativo onorevole di coniugare il dramma con la leggerezza. Non conosciamo l'esito commerciale del libro di Presta, sappiamo però che delle numerose proposte pervenute agli editori su questo stesso argomento negli ultimi due anni, quasi tutte sono state per ora respinte. Roberto Tiraboschi, nel suo L'armonia dei frutti bacati, edizioni e/o, pagg. 224, euro 18), vicenda di tre giovani adulti che cercano a fatica la propria strada esistenziale proprio a Milano, periodo del lockdown compreso, se la cava con una pagina composta di due sole date: 8 marzo 2020 e 3 giugno 2020. In pratica, un buco.

Come se l'editoria si volesse tenere alla larga da un tema ampiamente rimosso. Quella grossa, perlomeno. Qualche piccolo ci prova, per esempio le edizioni Efesto, con L'entità dei danni di Giulio Laurenti (pagg. 184, euro 15) un noir di provincia tra novax e servizi segreti.

E poi ci vuole una scrittrice americana, Louise Erdrich, in L'anno che bruciammo i fantasmi (Feltrinelli, pagg. 368, euro 20, trad. di Andrea Buzzi), per dare un po' di respiro alla descrizione di un evento così colossale.

Non più di una trentina di pagine comunque, ambientate a Minneapolis, in un romanzo che tratta d'altro, soprattutto della condizione dei nativi d'America.

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