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Aramco aumenta la cedola anche se i profitti calano

Riad convinta che l'Opec+ terrà il greggio su prezzi elevati come gli attuali. Preoccupati Usa ed Europa

Aramco aumenta la cedola anche se i profitti calano

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I numeri raccontano che Aramco, l'architrave dell'impero saudita, ha messo in cassa 30 miliardi di profitti nel secondo trimestre, il 40% in meno rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Il confronto è solo apparentemente impietoso, poiché nessuno si sognerebbe di paragonare il mesozoico al pleistocene. Due ere geologiche, o per meglio dire petrolifere, separano infatti il periodo da aprile a giugno di quest'anno da quello del 2022, connotato dall'impazzimento delle quotazioni del greggio in seguito allo scoppio della guerra tra Ucraina e Russia. I primi a non dare eccessivo peso all'ultima trimestrale sono i componenti del board del colosso petrolifero guidato da Amin Nasser. Con voto unanime, hanno infatti deciso di aumentare i dividendi: cedole per quasi 40 miliardi saranno pagate come risultato del primo semestre, cui sommare altri 10 miliardi che costituiscono un acconto sulle performance calcolate su un arco temporale di sei trimestri.

Se da un lato Aramco è consapevole che non sarà replicabile il livello di 140 dollari il barile sfiorato nel marzo '22, dall'altro c'è la convinzione che la brusca frenata degli utili sia solo un incidente di percorso. L'andamento dei corsi petroliferi, ormai a un passo dai massimi da quattro mesi (il Brent oscilla attorno agli 86 dollari e il Wti è poco sopra quota 82), sembra corroborare queste aspettative. Non a caso, Goldman Sachs prevede che il greggio del Mare del Nord raggiungerà i 93 dollari entro il prossimo anno. Due i motivi: la spinta derivante dalla forte domanda e l'offerta deficitaria da parte dell'Opec+, il cartello allargato anche alla Russia. A soffiare su un ulteriore restringimento produttivo è proprio Riad, che in giugno ha dato una strizzata da un milione di barili al proprio output. Il taglio, entrato in vigore lo scorso luglio, va ad aggiungersi agli 1,6 milioni già sottratti ai mercati dopo che l'organizzazione dei Paesi produttori ha scelto la linea dura.

Respingendo a più riprese la moral suasion esercitata dalla Casa Bianca volta a temperare i prezzi attraverso l'abbandono della politica di contenimento, il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman ha compiuto una precisa scelta di campo. Anche per ragioni puramente economiche. Pur avendo un costo di estrazione bassissimo (1-2 dollari il barile), l'Arabia ha un breakeven a 78 dollari (con il Brent come riferimento) causa crescenti impegni finanziari, di cui il reclutamento miliardario di campioni della pedata nella Saudi Pro League rappresenta solo l'ultimo tassello. Ma la scelta è stata anche e soprattutto di natura politica: di fatto, i sauditi si sono sfilati dalla sfera di influenza di Washington per entrare in quella di Cina e Russia. Mosca ha spinto Ryad ad aumentare i prezzi del greggio, per poi vendere il proprio greggio a un prezzo scontato rispetto a quello ufficiale a chi, come Pechino e Nuova Delhi, non ha aderito all'embargo. Finanziando in questo modo la macchina bellica.

A patto di non incappare in una recessione severa (un fenomeno escluso da Ocse, Fmi e banche centrali), l'evoluzione del quadro congiunturale sembra favorire un rialzo delle quotazioni dell'oro nero. Una prospettiva poco rosea per chi, come l'Italia, ha una forte dipendenza energetica dal gas, il cui andamento è legato a filo doppio a quello petrolifero. E neppure per gli Usa, dove ogni rincaro di 10 dollari del greggio si traduce in un aumento di 25-30 centesimi per gallone di benzina.

Un salasso capace di azzoppare Joe Biden nella corsa per un secondo mandato presidenziale.

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