Economia

In Argentina peggiora la crisi ma Wall Street si tiene i bond

In un solo giorno i tassi sono schizzati dal 45 al 60% Gli investitori stranieri: «Ma il Paese non è nel baratro»

Paolo Manzo

«L'Argentina non è ancora nel baratro, c'è preoccupazione ma non percepisco panico sui mercati anche perché in questi anni le banche hanno acquistato obbligazioni argentine per miliardi di dollari e non ne vendono di certo ora qualche decina di milioni per far crollare il resto che hanno in pancia». Da Wall Street fonti bene informate de il Giornale tranquillizzano sulla situazione a breve termine del Paese del tango la cui moneta, il peso, anche ieri è stata messa sotto forte pressione, precipitando a 41 sul dollaro sul mercato del cambio ufficiale dove, solo l'altro ieri, aveva chiuso a 32. E questo nonostante un intervento della Banca centrale che ha venduto mezzo miliardo di dollari in poche ore, oltre ad alzare i tassi in un solo giorno dal 45% al 60%.

Un tentativo che non ha impedito neanche il ritorno dei cosiddetti arbolitos, come si chiamano i cambiavalute illegali che era da fine 2015 che non si sentivano gridare con così tanto ardore «cambio, cambio» sulla peatonal, il centro chiuso alle auto di Buenos Aires. Ieri lo hanno fatto come nel 2015, ai tempi d'oro per loro, quando Cristina Kirchner sforava l'8% nel rapporto deficit-Pil per mantenersi al potere sussidiando luce, gas, quando il suo governo fissava i prezzi di carne e verdure come a Caracas e il cambio ufficiale con il dollaro Usa era fisso a 6 pesos mentre quello sul mercato nero, il «blue», era il doppio.

Certo, quando Mauricio Macri vinse le presidenziali di ottobre 2015, in molti tirarono un sospiro di sollievo perché la prospettiva di un'economia diretta da un governo sempre più chavista e populista era stata esorcizzata. Ancora a fine 2017, nelle elezioni di midterm, la maggioranza degli argentini diede fiducia a Macri mentre adesso la domanda che si fanno in molti sul Rio de la Plata è «arresteranno prima l'ex presidente Kirchner per corruzione o cadrà Macri»? Il quesito non deve stupire perché dal 1966, ancor prima dell'ultimo ritorno alla democrazia del 1983, non è mai accaduto che un presidente non peronista sia riuscito a concludere il suo mandato.

Non ci riuscì Raúl Alfonsín, radicale, che per l'iperinflazione fu costretto a cedere il potere a Carlos Menem con 6 mesi d'anticipo mentre fu addirittura costretto a fuggire in elicottero dalla Casa Rosada Fernando De La Rúa, il 20 dicembre del 2001. Macri è il terzo non peronista alla guida dell'Argentina da 54 anni a questa parte e, dunque, già se riuscisse a rimanere alla presidenza sino al 10 dicembre del 2019 il prossimo anno a Buenos Aires si vota - sarebbe un record.

Ciò naturalmente non giustifica la gravità della situazione di cui, comunque, tanta responsabilità ha lo stesso Macri che ha commesso «l'errore gravissimo di avere creduto troppo che il mercato lo amasse», oltre «a chiedere un prestito da 50 miliardi al Fmi, che non è mai una cosa buona per cui, di certo, avremo un autunno caldissimo a Buenos Aires ma anche altrove», spiega un trader che opera nella City di Londra, sottolineando come ieri i «Cds (credit default swap) argentini siano schizzati a quota 750 da 600 in un mese».

Ciononostante, sul Paese del tango al momento i grossi trader sono ancora costruttivi, ovvero «si compra e vende senza panico perché i problemi sono più generali», continua la nostra fonte di Wall Street «e perché il contagio - legato alla combinazione preoccupante della crisi della Turchia, della stessa Argentina, al dollaro forte e, in un'ottica di fine anno, alle incertezze in Brasile dove si vota tra poco più di un mese e in Messico, dove da dicembre chi sa che farà il presidente Amlo - per ora non è ancora esploso».

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