Economia

Le banche sfidano lo spread e tornano a emettere bond

Banco Bpm raccoglie 750 milioni al 2% per due anni: buona l'accoglienza. Attesa per il subordinato di Mps

Le banche sfidano lo spread e tornano a emettere bond

Sono stati superiori agli 1,3 miliardi di euro gli ordini arrivati da oltre 150 controparti per il bond da 750 milioni emesso ieri mattina dal Banco Bpm. Si tratta di un prestito obbligazionario senior preferred unsecured (ovvero non garantito) rivolto a investitori istituzionali, con scadenza a marzo 2022 che paga una cedola fissa del 2% e ha un rendimento lordo del 2,015% (spread a 2,05). In linea con un bond simile lanciato da Intesa nell'agosto del 2018 con una cedola annua del 2,12%, ma in quel caso la scadenza era a cinque anni.

L'istituto guidato da Giuseppe Castagna ha approfittato di una finestra favorevole sul mercato: le banche centrali stanno dando segnali accomodanti, si è allentata la tensione sui dazi e anche le aste di Btp delle ultime settimane sono andate bene. Così come le operazioni lanciate da altre big del credito, sebbene avessero scadenze e caratteristiche diverse trattandosi di bond subordinati. Unicredit a metà del mese scorso ha emesso il primo subordinato di una banca italiana da quando è nato il governo Conte (Tier 2 da un miliardo con un rendimento del 4,8%). Seguita da Ubi che il 25 febbraio ha approfittato della «grazia» di Fitch per lanciare un bond subordinato Tier 2 per 500 milioni offrendo un tasso d'interesse del 5,8%, molto più del 4,4% che la stessa Ubi aveva pagato nella sua ultima emissione di subordinati a marzo 2017. Quanto al gruppo guidato da Jean Pierre Mustier, dopo il maxi bond da 3 miliardi di dollari di fine dicembre e il «senior non-preferred» da 3 miliardi di dollari di inizio gennaio, deve ancora collocare 5,4 miliardi di bond, di cui 2,9 miliardi di titoli subordinati. C'è, infine, attesa per l'emissione della seconda tranche da 700 milioni di bond subordinati di Mps che potrebbe partire a breve.

Il ritorno delle obbligazioni bancarie non è un caso. Da una parte c'è la stretta della Bce sui crediti deteriorati che richiede accantonamenti extra sulle sofferenze, dall'altra l'incertezza che, dopo lo stop al Quantitative Easing, circonda il futuro delle aste di rifinanziamento a lungo termine, quelle Tltro che hanno dirottato 240 miliardi sul nostro sistema finanziario e che scadono nell'arco dei prossimi due anni. Ciò significa che circa il 15% delle risorse delle banche italiane dovrà essere rinnovato per la scadenza del programma di prestiti agevolati concessi da Francoforte (a meno di rinnovi su cui il mercato confida) o per le scadenze naturali dei bond.

Secondo i calcoli degli analisti di Equita, entro il 2020 ci saranno 200 miliardi di raccolta da rifinanziare. Anche se i rubinetti della Bce restassero aperti e il 40% venisse rinnovato, gli istituti dovranno emettere almeno 70 miliardi di nuovi bond. Facendo sempre i conti con un eventuale aumento dello spread (ieri a 255 punti base) che si traduce in un sovrapprezzo da pagare quando si raccoglie liquidità attraverso le obbligazioni. Il costo del cosiddetto funding è la base per determinare l'interesse sui prestiti a famiglie e imprese.

Se sale il primo, anche il secondo.

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