Politica economica

Cercasi politica industriale anti-declino

Per crescere ai ritmi di Francia e Germania serve un orizzonte almeno decennale

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Il tempo della politica per definire un piano industriale Italia è ormai scaduto. Sono non meno di 10 i governi che lo hanno ripetutamente annunciato, criticando gli esecutivi precedenti, per non averlo prospettato definendone il core su cui puntare, le risorse finanziarie, la pianificazione temporale. Tutti capitoli che se attuati avrebbero potuto dare corso a un'idea economico-finanziaria in grado di rilanciare uno sviluppo Italia coordinato e continuativo, in modo da interrompere la nefasta situazione che negli ultimi 20 anni ha impedito al nostro prodotto interno lordo di crescere complessivamente di poco più del 15%, contro oltre il doppio di Germania e Francia.

Non molto di meglio hanno provato a fare le altre maggiori rappresentanze datoriali del Paese, con in testa Confindustria (in foto il simbolo), che si sono adattate alle abitudini della politica che hanno nel rinvio il loro modus operandi. Adesso il governo Meloni, che ha nei suoi obiettivi primari il fare, fare bene, fare in fretta, ha l'impegno-occasione di rompere gli indugi e, insieme alle associazioni datoriali e ai sindacati, di realizzare un piano di politica industriale cadenzato secondo criteri attendibili e misurabili. Bene ricordare che la politica industriale dell'Italia è stata ben chiara e definita fino alla fine degli anni 80. Essa aveva nelle produzioni metalmeccaniche, di ogni tipo, e in quelle delle costruzioni, il suo core, annesse a entrambi era fiorente la siderurgica, tanto da arrivare alla realizzazione del più grande sito europeo, a Taranto, oggi Ilva. L'auto aveva un campione mondiale nella Fiat, il corollario progettuale era costituito dai più rappresentativi design mondiali, Pininfarina, Giugiaro e Bertone,la Pirelli era al top dei pneumatici e pure, sempre della scuderia Agnelli, era importante la produzione degli autoveicoli per trasporto merci agricoltura e costruzioni. La forza trainante delle imprese italiane era diffusa in tutto il globo, manifattura e costruzioni, con gli indotti costituivano oltre la metà dell'intera occupazione con agricoltura e servizi a rappresentare il restante. La crisi Fiat di inizio secolo ha dato inizio ad un progressivo allentamento dell'importanza delle produzioni, pur rappresentando ancora adesso ben oltre i 2/3 dell'export con il restante derivante dall'agricoltura, a cui ha fatto da contraltare la crescita del terziario. A fronte di questo scenario si è determinato un continuo passaggio di mano delle proprietà, da italiane a estere, di imprese di grandi e medie dimensioni, portando la nostra qualificata ed eccellente filiera a essere dipendente da ordinativi sempre più esteri, con accelerate e continue migrazioni di siti produttivi e di sedi legali, le cui società pagano le tasse fuori dal Bel Paese.

Limitare l'andazzo in corso di cessioni di capitale e delocalizzazioni estere è quanto mai difficile, solo una politica industriale chiara e fissata almeno a carattere decennale, integrata da un piano di

logistica e trasporti può stimolare insediamenti produttivi dall'estero e il mantenimento del controllo delle grandi imprese in mani italiane, in modo da ridurre le delocalizzazioni sia produttive, che degli head quarter.

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