Economia

Crolla il feudo rosso di Siena In palio non c’è solo il Monte

L’indagine su Mps travolge l’intero sistema di potere dalemiano basato sull’intreccio fra politica e finanza. L’ad Profumo deve trovare 2 miliardi, il Comune resta a secco

Crolla il feudo rosso di Siena  In palio non c’è solo il Monte

Sono un po’ come Totò e Peppino. Franco Ceccuzzi, sindaco, ex parlamentare, ex segretario cittadino, ex tutto, è l’attore protagonista; Simone Bezzini, presidente della Provincia, la spalla che aspetta rispettoso il suo turno. Strana conferenza stampa quella del duo che rappresenta il vecchio, inossidabile apparato di matrice diessina più che democratica. Palazzo Berlinghieri, dove si svolge la recita, si affaccia su Piazza del Campo. Ma il cortile rosso non è più inviolabile, come è sempre stato da queste parti. E così tocca vedere quel che mai era accaduto nel feudo del Monte dei Paschi. La coppia che si profonde in salamelecchi per una parte della maggioranza che oggi fa più paura dell’opposizione. «Sappiamo - attacca Ceccuzzi - che martedì in consiglio la maggioranza rischia la caduta e allora io invito i consiglieri della Margherita a riflettere. Diamoci qualche giorno in più per capire e trovare una mediazione». Bezzini scuote la testa con vistosi e meditati cenni di approvazione. Siena è finita sulle prime pagine dei giornali per via dell’inchiesta che ha violato il santuario della finanza rossa. Sarebbe un po’ troppo se la città del Palio dovesse esibirsi ancora, in meno di una settimana, causa frantumazione di un sistema di potere alto settant’anni.
Il problema è che il tappo è già saltato anche se mani consumate dalla politica stanno cercando in tutti i modi di rimetterlo sul collo della bottiglia. Il Monte è sfregiato da un’indagine che solo ieri sarebbe stata catalogata come fantascienza e invece i pm puntano il dito contro l’operazione Antonveneta, il tentativo di un gruppo di banchieri provinciali, sia pure di lusso, di entrare nel gotha della finanza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: quei 10 miliardi pagati agli spagnoli del Santander nel 2007 si sono rivelati un macigno al collo. «Devo dire - spiega Ceccuzzi al Giornale - che all’epoca non ho visto nessuno, ma proprio nessuno, contestare quell’acquisizione, nessuno predicava sventura, tutti sognavano una grande Siena». L’obiezione che tutti fanno è altrettanto semplice: nessuno contestava perché nessuno sapeva con esattezza il salasso cui il Monte stava gioiosamente andando incontro. «Abbiamo avuto anche molta sfortuna - aggiunge Bezzini - Chi poteva immaginare nel 2007 che avremmo incrociato la crisi, il tracollo delle borse, il crollo dei titoli?».
Forse, se la finanza fosse stata meno impastata con la politica, l’ambizione sarebbe stata meno cieca. Forse ci si sarebbe fermati prima. Dopo aver ingoiato la Banca agricola mantovana e poi la banca del Salento, la famosa 121, quella di una celebre pubblicità con Sharon Stone, guidata da quel Vincenzo De Bustis in ottimi rapporti con il clan dalemiano e strepitoso nel salire direttamente ai vertici del gruppo acquirente. Invece la corsa è finita con quel grande ruzzolone. E ora tutto il sistema di potere rischia di venire giù. Il Monte boccheggia e Profumo, catapultato a Rocca Salimbeni, dovrà raggranellare i 2 miliardi circa necessari per il prossimo, probabile aumento di capitale.

Ma con la mangiatoia asciutta anche tutti quelli che si abbeveravano potrebbero rimanere digiuni. E perfino il Comune aspetta con ansia dalla Fondazione, che del Monte è il principale azionista, sei milioni di euro necessari come il pane per chiudere il bilancio. La Margherita si è messa di traverso, il sindaco cerca di guadagnare qualche giorno invocando le liturgie della politica: «Lunedì chiederò alla conferenza dei capigruppo di spostare la data del consiglio». E la Margherita, che non è un partito ma una corrente, dovrà adeguarsi. Ma alla fine non è ancora chiaro se quei sei milioni arriveranno o no.
«In quindici anni - racconta Claudio Marignani, coordinatore provinciale del Pdl - la Fondazione ha erogato qualcosa come 1,9 miliardi di euro. Qui prendevano soldi tutti, comprese le bocciofile, i bevitori di grappa, gli sbandieratori. E i postcomunisti controllavano in modo ferreo la città, la Fondazione e la banca con un travaso continuo di uomini da un posto all’altro. Solo che proprio per la loro estrazione politica quei dirigenti non facevano gli interessi del Monte, ma lo spremevano come un limone per tutelare le loro clientele. La banca non è stata patrimonializzata, ma svuotata con perdite astronomiche».

Poi, nelle convulse ultime settimane, tutti gli accordi sono saltati: ad Alfredo Monaci, margheritino, fratello del presidente del consiglio regionale Alberto, è stata chiusa in faccia la porta, già spalancata, della vicepresidenza. Oggi il Monte è un colosso d’argilla ma è anche una banca a trazione integrale dalemiana: il presidente è Alessandro Profumo, suoi vice sono Turiddo Campaini, storico capo di Unicoop, e Marco Turchi, figlio di un altrettanto storico revisore dei conti del Pci. I cattolici, già ai margini, si sono sentiti emarginati. E in consiglio comunale la margherita ha fatto saltare il bilancio, compiendo un atto di lesa maestà che non si vedeva dalla Liberazione. Mancavano solo le Fiamme gialle, puntualmente entrate fra gli squilli di tromba di Milena Gabanelli.

Il cortile rosso oggi è un campo di battaglia.

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