Economia

La Fed alza i tassi e gioca col fuoco

Pil +0,9% nel primo trimestre e inflazione al 2,7%: l'America a rischio stagflazione?

La Fed alza i tassi e gioca col fuoco

Rialzo doveva essere, e rialzo è stato. Dopo aver preparato con cura il terreno cancellando la comunicazione sgangherata e ondivaga dei mesi scorsi, la Federal Reserve sceglie di aumentare i tassi di un quarto di punto, collocandoli in una forchetta compresa tra lo 0,75 e l'1%. Un range che non si vedeva dall'ottobre 2008, a crisi dei mutui subprime ormai conclamata. Dopo la mini-stretta di dicembre, la banca centrale Usa prosegue quindi nel processo di normalizzazione della politica monetaria. L'intento è ribadito ieri nel comunicato finale che conferma l'intenzione di procedere, entro fine anno, con altri due giri di vite al costo del denaro, per poi farne seguire altri tre durante il 2018. Ma ogni mossa sarà graduale. Alzare i tassi «troppo velocemente», ha spiegato la presidente Janet Yellen, potrebbe far ricadere gli Stati Uniti in «recessione» e portare rischi per i mercati finanziari. La scelta di ieri è stata motivata con il fatto che «attendere troppo ora» potrebbe significare dover «accelerare troppo in seguito».

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, le motivazioni della stretta vanno anche ricercate nel non detto. È verosimile pensare che dietro la decisione presa ieri ci sia l'intento di recuperare quella credibilità ampiamente compromessa durante il 2016 a causa dei continui temporeggiamenti sulla rimodulazione della politica monetaria. Ma non solo. La Yellen ha ribadito che la Fed «non è particolarmente preoccupata per lo sviluppo di bolle pericolose», ma i livelli record raggiunti da Wall Street (agevolati in buona parte proprio dall'appiattimento dei tassi che ha incoraggiato la pratica dei buy back miliardari) potrebbero aver reso più agevole la decisione di alzare i tassi. Poi, c'è il capitolo inflazione: il 2,7% toccato in febbraio rappresenta un livello difficilmente tollerabile, essendo ben al di sopra del target del 2% stabilito dalla banca centrale Usa e alla luce della contrazione subita dai salari reali (cioè al netto dell'inflazione), scesi dello 0,3% in febbraio dopo il -0,5% di gennaio. L'irrigidimento monetario potrebbe però anche essere una mossa preventiva. La Fed, in pratica, si starebbe creando lo spazio necessario per ingranare la retromarcia se nel corso dell'anno le cose dovessero mettersi male. Ipotesi, peraltro, non da escludere. E non solo perché non sono ancora calcolabili gli effetti della Trumponomics, su cui la numero uno della Fed sospende il giudizio («Troppo presto per valutarne l'impatto»), verso cui comunque la politica monetaria «non ha raggiunto un punto in cui si trova in conflitto». Eccles Building ha confermato che quest'anno e il prossimo il Pil dovrebbe progredire del 2,1%, ma poche ore prima del termine della riunione del Fomc, la Fed di Atlanta ha diffuso le stime relative alla crescita del primo trimestre 2017, limate dal +1,2% dell'8 marzo all'attuale +0,9. Se confermata dalle prossime proiezioni, sarebbe l'espansione più fiacca dal 1987 e l'America comincerebbe a flirtare con la stagflazione soprattutto se le stime di inflazione all'1,9% a fine dicembre risulteranno sbagliate per difetto.

La Yellen potrebbe dunque presto trovarsi nella scomoda posizione di dover scegliere se continuare ad alzare i tassi per contrastare il surriscaldamento dei prezzi, accollandosi il rischio di schiantare del tutto la già debole crescita Usa (sempre che la colpa non venga attribuita a Trump); oppure, se ricominciare a far calare la scure sul costo del denaro per scongiurare la stagnazione o, peggio, la recessione.

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