Economia

L'Opec non taglia, crolla il petrolio

I prezzi cadono sotto i 68 dollari. Più dura la lotta alla deflazione per Draghi. Che conferma: «Pronti a ogni misura»

Avevano il coltello dalla parte del manico. Hanno invece deciso di non usarlo, i 12 Signori del petrolio uniti (poco, per la verità) sotto la bandiera dell'Opec, lasciando inalterato a 30 milioni di barili il giorno il tetto alla produzione. Dal vertice di ieri a Vienna, niente tagli all' output , il solo modo per provare a restituire un po' di colore alle anemiche quotazioni del greggio, che dalla scorsa estate si sono sgonfiate del 35%. Un mantenimento dello status quo che ha avuto come immediata conseguenza il crollo del Wti sotto i 68 dollari il barile (minimo dal giugno 2010) e del Brent, finito sotto la soglia dei 75 dollari. Una valanga di vendite che a Piazza Affari ha anche mandato in tilt titoli legati al mondo petrolifero come Eni (-1,9%), Saipem (-4,6%) e Tenaris (-3,6%).

Ancora una volta, l'Arabia Saudita ha fatto valere tutto il proprio peso all'interno dell'organizzazione, isolando Iran, Ecuador e Venezuela che spingevano per calmierare le estrazioni. Riyad, da sempre, confida nella capacità di autoregolazione del mercato nella formazione dei prezzi, ma è del tutto improbabile che ignori i mutamenti in atto nel panorama energetico mondiale. Se è vero che le quotazioni soffrono della minor sete di oro nero generata dal rallentamento dell'economia globale e del rafforzamento del dollaro, è altrettanto vero che oggi l'Opec ha un potere di condizionamento (e di ricatto) nettamente inferiore rispetto a qualche anno fa, quando disponeva della metà dell'intera produzione mondiale. Oggi il Cartello controlla circa un terzo dell'intera produzione complessiva, pari a 90 milioni di barili il giorno, per effetto dell'ingresso sulla scena di nazioni come la Russia e il Messico. Non a caso, durante alcuni incontri bilaterali a margine del summit, si è cercato di convincere Mosca e Città del Messico a moderare la produzione. Senza successo. Dal timore di perdere quote di mercato, è scaturita quindi la decisione di pompare dai pozzi lo stesso numero di barili e di rischiare ulteriori deprezzamenti del greggio.

Spiegazione logica, perfino banale. Altre appaiono più suggestive, per quanto abbiano il difetto di non poter essere provate. La prima, per esempio, motiva il mancato taglio alla produzione con la volontà dell'Arabia Saudita di mettere in ginocchio i russi, già provati duramente dalle sanzioni. Il mandante dell'operazione sarebbe però l'alleato storico di Riyad, gli Stati Uniti. Un'altra tesi dice però l'opposto: i sauditi starebbero pilotando al ribasso i prezzi del petrolio per rendere meno conveniente lo shale oil (il cui costo di produzione si aggira sui 65 dollari), “miracolo“ energetico a stelle e strisce che permetterà quest'anno agli Usa di importare appena 6,5 milioni di barili il giorno, come 20 anni fa.

Fantaeconomia? Dietrologia? Forse. Di sicuro, quotazioni del greggio così basse complicano la lotta di Mario Draghi alla bassa inflazione. In Germania i prezzi al consumo sono scesi in novembre allo 0,6%, il livello più basso dal febbraio 2010, e ciò dovrebbe indurre i tedeschi ad avere un approccio meno duro verso il possibile piano di quantitative easing. Il presidente della Bce ha ribadito ieri che, se necessario, saranno utilizzate «misure straordinarie aggiuntive».

Un'ulteriore sottolineatura che ha fatto calare lo spread Btp-Bund a quota 135 e portato, all'asta del Tesoro, alla discesa del rendimento del Btp a 5 anni sotto l'1% e quello del decennale al 2,08%.

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