Economia

Nuove strade per il brokeraggio assicurativo

Ristrutturazioni, tagli dei costi, normative onerose e crisi dei mercati spingono i broker a cambiare i modelli di business. Come? Se ne è parlato in una tavola rotonda promossa con il Giornale delle Assicurazioni

Nuove strade per  il brokeraggio assicurativo

Ristrutturazioni, tagli dei costi, normative onerose e crisi dei mercati spingono i broker a cambiare i modelli di business. Come? Se ne è parlato in una tavola rotonda promossa con il Giornale delle Assicurazioni.

Difficile dire se si tratti di un’evoluzione inevitabile o di mutamenti innescati dalla congiuntura economica. Ma è indubbio che il sistema distributivo sta rapidamente cambiando. Costi crescenti, apparato regolamentare sempre più elaborato, politica di tagli e risparmi delle compagnie e perdurante sottoassicurazione della clientela corporate e retail sembrano spingere le reti agenziali e le società di brokeraggio a cambiare modello di business. In che direzione si muove, allora, la consulenza assicurativa? Quali sono per i broker le criticità da superare e le tendenze da seguire? Come evolverà il mercato e la professione?

 

A queste domande ha cercato di rispondere una tavola rotonda presso il Giornaledelle Assicurazioni dal titolo I trend che stanno cambiando il brokeraggio assicurativo in Italia, organizzata da Marcella Frati, director di Emf group, e introdotta da Angela Maria Scullica, direttore del Giornale delle Assicurazioni e di BancaFinanza. Al dibattito hanno partecipato Walter Albini, amministratore delegato di Willis, Enrico Boglione, presidente di Aon, Mauro Dotti, direttore generale di Inser, Ennio Profeta, amministratore delegato di Gbs (General broker service), Luciano Tonet, amministratore delegato di Arena broker, Giovanni Turci, vice presidente di Marsh, e Luigi Viganotti, presidente di Acb (Associazione di categoria brokers di assicurazioni e riassicurazioni).

 

Domanda. Quali sono, oggi, le tendenze di fondo del brokeraggio assicurativo?

 

Boglione. Le crisi portano sempre a una maggiore percezione del rischio. Per questo motivo, le grandi incertezze e preoccupazioni del periodo che stiamo vivendo ci presentano varie opportunità. A condizione che ci dimostriamo in grado di dialogare con i nostri clienti, di aiutarli a percepire, a quantificare e a gestire i rischi. Non si tratta di un’operazione semplice, anche perché lo scenario del brokeraggio è cambiato e continua a cambiare. Vent’anni fa, le cose erano facili. Il settore assicurativo era dominato dagli agenti, che proponevano polizze non competitive, fatte male, care. I broker riscrivevano i testi e le condizioni delle coperture, e ogni anno riuscivano ad abbassare i premi. Era una specie di corsa all’oro: chi era più svelto si accaparrava più clienti. Oggi l’Eldorado non c’è più. Ormai si compete sulla nostra remunerazione, a volte molto compressa. Non restano margini da raschiare. Si sta consolidando la tendenza a passare dalle provvigioni alle fee, oltre a ogni limite, creando le condizioni per non poter più lavorare bene con i propri clienti perché non ci sono più i presupposti oggettivi per farlo. Dovremmo affrontare questa situazione focalizzandoci meno sulla polizza e più sul rischio. L’organizzazione e il lavoro delle società di brokeraggio vanno pensati e strutturati in funzione del risk assessment più che sulla gestione di portafogli polizze. Il driver dello sviluppo deve essere la valutazione dei rischi, attività complessa che richiede specializzazione e competenze adeguate: ingegneri per le costruzioni o l’energy, avvocati per la compliance, esperti in economia che analizzano i financial risk, solo per fare qualche esempio. Il che significa, naturalmente, maggiori costi e la necessità di avere una massa critica, le risorse per gli investimenti indispensabili. Non voglio dire che non ci sia più spazio per i piccoli broker. Al contrario, quando si uniscono a noi, dimostrano di possedere skill imprenditoriali che rappresentano vitamine rivitalizzanti per le grandi organizzazioni. Però a mio parere, se vuole rimanere indipendente, la piccola società di brokeraggio si può orientare su una fascia di clientela molto retail, vicina a quella di un’agenzia, alla quale però fornisce servizi altamente professionali, perché non è monomandataria. Oppure, se vuole entrare nel gioco grosso del risk assessment, è chiaro che non può avere tutti gli esperti di tutte le specializzazioni, che vanno di pari passo con le dimensioni del broker. Il piccolo può scegliere un particolare settore, le gioiellerie, per esempio, o l’agricoltura, o la grandine o altro, non può giocare su tutti i campi. È certo, comunque, che oggi limitarsi alla gestione delle polizze impoverisce.

 

Profeta. L’errore al quale noi intermediari non abbiamo potuto sottrarci quando si raccoglieva, diciamo così, con grande entusiasmo e agilità, è stato quello di essere diventati tutti generalisti. In effetti a quel tempo era possibile esserlo; allora il momento cruciale era quello dell’acquisizione del cliente: dopo era sufficiente recarsi dall’assicuratore, dal quale si ottenevano molto spesso condizioni contrattuali altamente competitive e sconti sul prezzo, proporzionali alla specifica capacità contrattuale del broker ma comunque sempre notevoli e apprezzati dal cliente. A quel tempo il mercato c’era per chi aveva voglia di aggredirlo, era lì ad aspettarti... Adesso le cose sono cambiate; non è più così. La domanda si è rarefatta, è diventata, giustamente, puntuale ed esigente. Negli ultimi cinque anni ho assistito a un rapido cambiamento: il focus si è spostato dal momento della acquisizione del cliente alla sua gestione integrale, tutto «condito» da un’azione costante di sorveglianza e protezione del rapporto dagli attacchi dei competitori. Lo scenario è profondamente mutato. Sono mutati gli attori, le esigenze si sono evolute, il broker da esperto di polizze è passato a essere il consulente integrale nella gestione del rischio. Un mutamento complesso con un’utenza sempre più consapevole delle proprie necessità e sofisticata nelle richieste. Se nel passato il ciente era concentrato sulle condizioni-base e sugli sconti, oggi invece, ferma la costante pressione sul prezzo, chiede interventi di risk management, mappatura, loss prevention, assessment. In aggiunta, il cliente tende a individuare nel suo broker un responsabile autonomo nell’area del rischio ben oltre il suo ruolo di intermediario. Oggi ogni contrattempo, errore o disservizio, che riguardi la valutazione del rischio, la correttezza della compagnia o il momento del sinistro, coinvolge il broker in maniera diretta e integrale. In questa situazione è chiaro che diventa sempre più arduo, per le condizioni oggettive del mercato e per la richieste sempre più sofisticate delle aziende, operare in maniera adeguata e sufficientemente professionale e strutturata in ogni settore di rischio, in sostanza essere qualificati generalisti. La risposta non può che essere quella dell’adozione di un livello e ampiezza di specializzazione coerente alla dimensione e ai mezzi finanziari che ciascuna società di brokeraggio possiede.

 

Albini.Dal mio punto di vista, osservo un grande cambiamento nel modo di fare impresa. Si tratta, infatti, di passare dal brokeraggio tradizionale, fortemente basato su conoscenze interpersonali, a un’organizzazione strutturata delle attività, con l’industrializzazione dei processi al servizio dei vari segmenti di clientela. Ci vogliono i prodotti e le persone ad hoc per ogni singolo segmento del mercato. E soprattutto gli strumenti giusti, un po’ più moderni, al passo con le nuove tecnologie, capaci di aumentare l’efficienza e diminuire il consumo di tempo e di denaro garantendo, nel contempo, standard di qualità più elevati. Noi, per esempio, usiamo la piattaforma WillPlace per il monitoraggio e il piazzamento dei rischi sui mercati assicurativi, che permette un approccio scientifico e oggettivo a uso delle attività centrali della nostra professione. Finora l’account executive (il broker) piazzava i rischi in base alle sue esperienze personali, con inevitabili limitazioni e margini d’errore. Ma i tempi sono cambiati: la Borsa di Milano non è rimasta alle grida, è da tempo un mercato dove le transazioni avvengono esclusivamente per via elettronica. Non basta: i carrier, le compagnie che offrono soluzioni assicurative, vanno valutate. Noi lo facciamo ogni anno con il Willis quality index, che analizza sottoscrizione, amministrazione della polizza, gestione sinistri e servizi in generale prestati ai nostri clienti dagli assicuratori. Pure il profilo della market security è importante, visto che anche da noi sono successi spiacevoli episodi, particolarmente gravi in un mercato già tanto concentrato: se ci sono timori di possibili default è meglio che i nostri clienti ne siano informati, che abbiano a disposizione una sorta di rating e il puntuale monitoraggio di ciascuna compagnia coinvolta o coinvolgibile nei loro programmi assicurativi. Io penso che strumenti del genere siano oggi indispensabili per una vera industrializzazione del nostro lavoro.

 

Viganotti.Se le analisi fin qui fatte corrispondono al vero, allora potremmo affermare che il brokeraggio si troverebbe, o è già, nella stessa situazione delle compagnie. Una situazione in cui non c’è mercato. Uno dei problemi più gravi al quale il broker deve quotidianamente far fonte è la mancanza di interlocutori validi. I gruppi assicurativi e le compagnie sono notevolmente diminuiti e ancora più si ridurranno se andasse in porto la fusione Unipol-Fonsai. Questo significa ancora minor concorrenza, ammesso e non concesso che i player dell’industria assicurativa si facciano concorrenza. I grandi broker lavorano in un modo diverso da quello che è l’attività tradizionale della professione, nella quale il broker viene considerato il consulente del cliente, come l’avvocato, il fiscalista. Davvero il brokeraggio deve trasformarsi in un’industria? Allora i piccoli sparirebbero tutti, per essere assorbiti dalle grandi società: non avrebbero la possibilità di sopravvivere, perché i costi della gestione societaria sono troppo alti e ci vuole una massa critica di premi per fare investimenti. Io non condivido questa visione: si andrebbe a restringere ulteriormente un mercato già ridotto dalle fusioni e acquisizioni delle compagnie. Oggi è necessario più che mai essere degli specialisti per riuscire a competere con le grandi strutture nei settori di nicchia. Acb infatti sta attivandosi su questa linea di condotta e sta lavorando per creare nuovi settori in cui sia possibile operare per aprire il mercato a nuove opportunità di specializzazione. Viviamo in un tempo in cui la copertura sui rischi è di importanza fondamentale e dobbiamo acquisirne la consapevolezza.

 

Turci.Una quindicina d’anni fa, uscì un libro: Where is my cheese? Raccontava di una tribù di topolini che aveva scoperto un magazzino di formaggio. Tutti mangiavano senza preoccuparsi di nient’altro, finché il formaggio finì e i topolini si chiesero: e adesso che cosa facciamo? Questa storia somiglia un po’ a quella dei broker. Il mondo del brokeraggio ha vissuto anche di rendita di sistema che si è esaurita. La realtà è completamente diversa rispetto a quattro-cinque anni fa. I clienti, dagli enti pubblici alle piccole e grandi aziende, sono cambiati. Il mercato dei provider, i nostri fornitori, è rivoluzionato; per le compagnie ai problemi di qualità si sono aggiunti anche quelli strutturali. Quando la gestione finanziaria permetteva di sorreggere i risultati industriali, l’approccio alla sottoscrizione dei rischi era caratterizzato da una certa flessibilità. Oggi anche le compagnie hanno grandi difficoltà a realizzare margini e sono diventate molto selettive: alcuni rischi non si assicurano più. E quindi il discorso sulle commissioni è, al limite, marginale, perché a diminuire sono i premi, e la remunerazione è stata svincolata dai premi stessi. Un numero crescente di enti pubblici non sono più in grado di pagarsi i premi. Alcune prefetture sono intervenute sulle compagnie obbligandole a rilasciare contrassegni per flotte di trasporto pubblico, che non trovavano sottoscrittori o con sottoscrittori che chiedevano premi fuori dalle possibilità dell’ente. Le grandi aziende da un lato non trovano risposte ai grandi rischi, dall’altro hanno la necessità di ridurre i costi. C’è una grande opera di mitigazione del rischio, nella prospettiva di avere premi duraturi e stabili nel tempo. L’esigenza dell’industria è quella di avere quella stabilità nei costi che permetta loro di pianificare nel medio periodo. I problemi per i broker quindi derivano da una contrazione dei premi o da una forma di remunerazione negoziata al ribasso dal cliente stesso.

 

D. Mi sembra che i due temi cruciali siano la redditività e nuove aree di business…

 

Dotti.Inser opera soprattutto nel nord est dove esistono splendide realtà industriali e dove osserviamo una diffusa preoccupazione che arriva fino a un certo senso di sconcerto, di fronte all’incapacità del nostro paese di risolvere i tanti problemi. Per essere all’altezza di quello che occorre fare, e cioè essere in qualche modo partner e supporto alle imprese, dobbiamo impegnarci affinché il livello di relazione e comunicazione siano aderenti alle esigenze dei nostri clienti. In un momento di crisi e di disorientamento bisogna lavorare duramente per farci trovare pronti per le nuove sfide. Quelle che si presenteranno e quelle che vorremo lanciare. E non potremo essere pronti senza studiare attentamente i fenomeni, osservare i cambiamenti e creare innovazione. Per fare questo dobbiamo garantire cultura, formazione, comunicazione fluida, specializzata, competitiva e aperta verso il resto del mercato. Se questo pensiero è condiviso ci troveremo a comprendere che le 30 ore di formazione non possono essere più considerate un obbligo ma un vera e propria opportunità, un momento di cambiamento. Inser ha eliminato l’aggiornamento via web. Questo perché lo facciamo in aula. È vero: ci costa e costringe agli spostamenti, 100 persone su cinque uffici. Ma vogliamo fare cultura. Gli imprenditori, i clienti in generale devono poter contattare il proprio professionista di fiducia per ottenere le informazioni che le compagnie non sempre sono pronte a garantire, perché tuttora impreparate a offrire un servizio ampio, globale e soprattutto personalizzato. La trasparenza è un altro elemento fondamentale. Non dobbiamo avere paura di rendere nota la nostra remunerazione, non dobbiamo più farci rincorrere dal cliente che non sa qual è il nostro compenso, che ci confonde ancora con la compagnia di assicurazioni, o pensa che la commissione del broker sia un’addizionale o un’aggiunta al prezzo stabilito. Come detto, noi operiamo soprattutto nel nord est, un’area stimolante ma difficile perché molto spesso gli imprenditori svolgono tutti i ruoli aziendali - capo del personale, direttore amministrativo, direttore degli acquisti - e per necessità e cultura sono persone decisamente sbrigative nella comunicazione. Per questo motivo, il piano economico e finanziario, e quindi la trasparenza di quello che si è, di quello che si guadagna, deve essere massima e immediata. Solo con queste due armi, e cioè la formazione e la trasparenza, possiamo pensare di bilanciare la forza che contraddistingue l’agente locale. Un altro aspetto importante è la collaborazione con le compagnie di assicurazione: lo scontro non porta ad alcun risultato. Va fatto un grande sforzo da parte di tutti, grandi e piccoli (e con l’aiuto, in primo luogo, delle associazioni di categoria Aiba e Acb) per far capire alle compagnie che il nostro lavoro continua a essere impegnato sulla consulenza e non sulla vendita di prodotti, quasi sempre a catalogo. Per garantire la continuità del nostro business c’è molta informazione da promuovere, ma anche cultura da diffondere. Dobbiamo deciderci a uscire dallo stress del prezzo ed entrare nella logica del servizio e del progetto con il nostro cliente. Le polizze danni da interruzione di attività, per esempio, in Italia sono sottoscritte da circa il 15% delle aziende, all’estero da circa il 90% delle imprese. Spesso non si ha tempo per spiegare questa copertura, con il loss profit, le criticità del layout aziendale, l’analisi dei guasti macchine. Invece bisogna farlo, con l’aiuto di tutte le tecnologie. Bisogna spiegare tutto all’azienda cliente perché, se capita un guasto, un intoppo qualunque, con la concorrenza che c’è in ogni campo si rischia di perdere la relazione di fiducia, e quindi il cliente. E il lavoro. Se l’imprenditore perde questo baricentro socio-economico, anche le compagnie e le associazioni di categoria incontreranno serie difficoltà.

 

Tonet. Rappresento una delle ultime case di brokeraggio di origine bancaria. Siamo una realtà media con una sessantina di dipendenti e nella classifica delle società di brokeraggio in Italia ci posizioniamo intorno al quindicesimo posto. Questo già la dice lunga sull’estrema frammentazione del settore. In un mercato di piccole dimensioni come quello assicurativo, che nei rami danni ha un fatturato molto inferiore a quello delle più grandi multinazionali industriali italiane, il business dei broker è ancora più piccolo. Vedo due criticità - una interna e l’altra esterna - per le quali ci possono essere soluzioni. La prima (probabilmente non abbiamo il coraggio di guardare dentro le nostre realtà e cerchiamo solo fuori di noi) è quello della redditività. L’ho trovata anche in Arena Broker e l’abbiamo risolta: infatti in cinque anni l’azienda è passata da 400 mila a 1,5 milioni di utili, riportando le spese a quelle del 2004. Il problema, infatti, erano i troppi costi. Nel brokeraggio, le aree di spreco sono diverse. E noi ci siamo concentrati su due: quella operativa e quella commerciale. Sulla prima abbiamo realizzato una ristrutturazione che ha portato a un recupero di efficienza. La seconda è stata più lunga e complessa. La rete che ho trovato era poco dinamica, troppo pagata e mercenaria. Ho potuto riscontrare che il problema riguarda tutto il settore: ho incontrato molti account che si proponevano a noi provenienti da altri broker e che chiedevano alti compensi, spesso millantando credito che non avevano. Se 20 anni fa il piatto era ricco, adesso i tempi sono cambiati, ma il commerciale non se ne accorge. Gli account, troppo pieni di sé, dicevano «i miei clienti» - invece di dire «i clienti di Aon, di Arena Broker, di Willis». Un fenomeno che, nell’industria, sarebbe impensabile. Erano gli unici interlocutori del cliente, lo nascondevano all’azienda, che soffriva di un fenomeno che definirei «eclisse d’account». Tanto che l’impresa assicurata pensava che facesse tutto l’account, mentre dietro di lui c’era una struttura molto articolata. Beh, con questo mondo abbiamo chiuso: ho cambiato l’80% della nostra rete. Abbiamo rimesso il cliente al centro, e intorno a questo centro gira l’azienda: gli abbiamo fatto capire che l’account è il primo violino, ma è l’orchestra a fare la musica, a fornire un apporto essenziale al «commerciale». L’obiettivo era abbassare la volatilità del cliente e impedirne la mercenerizzazione al solo vantaggio dell’account.

 

D. La criticità esterna invece qual è?

 

Tonet.Le compagnie. Quelle che hannoscelto come canale elettivo i broker sono poche, ancora meno sono quelle nazionali; poche hanno le capacità di sostenere grandi rischi, e non hanno sempre strutture adeguate per rispondere velocemente alle nostre richieste. Occorre giocoforza lavorare ancora con quelle tradizionali (dove esiste una concentrazione in pochi grandi gruppi, che crea l’effetto cartello), il cui canale elettivo rimane l’agenzia monomandataria, e per questo investono poco sul canale broker. Ci vedono come chi ha fatto scendere i premi. Ma non è così. La sfida è fare capire a queste compagnie che utilizzare di più il canale broker è un modo per far crescere la cultura assicurativa del cliente e anche la spesa assicurativa globale, perché stimoliamo il cliente a coprire aree non (o poco) assicurate. Insomma: farebbe aumentare la torta dei premi e nello stesso tempo la competizione. Gioverebbe a tutti: alle compagnie migliori, ai clienti e all’economia nazionale. Naturalmente parliamo di quel 15-20% dei broker che è in grado di operare direttamente con le direzioni. E non delle società di brokeraggio che vanno dalle agenzie a farsi fare le polizze e che sembrano subagenti plurimandatari. Se escludiamo quelli che operano in settori di nicchia, qual è il valore aggiunto di questi broker rispetto a un’agenzia in regime di multimandato? Io proporrei di vietare ai broker di piazzare rischi attraverso le agenzie. È una provocazione, d’accordo, perché le compagnie non sono pronte. Ma credo che, fino a quando nella categoria resteranno questi «presunti» broker, il nostro settore (come, del resto, la cultura assicurativa) crescerà lentamente. La sfida, per Arena, è rapportarsi con le compagnie in forma paritetica e leale, non conflittuale, ma neanche «ancillare», per far crescere le coperture assicurative, e quindi i premi. Per fare crescere il settore occorre cambiare due cose. In primo luogo, dobbiamo lavorare sulla nostra rete commerciale, per aumentare la parte variabile del sistema di compensazione. Poi, le nostre associazioni dovrebbero essere più capaci di far conoscere la funzione del broker presso le aziende. Per esempio attraverso convegni per le aziende, in cui i broker portano i loro testimonial, e si diffonde la cultura dell’intermediazione libera dalle compagnie (come ha avuto modo di dire più volte Antonio Catricalà da presidente dell’Antitrust). Dobbiamo contare di più come lobby, naturalmente nel senso buono.

 

Turci.La situazione, non certo semplice, in cui ci troviamo offre anche grandi opportunità. I broker sono cresciuti con la capacità di pensare e proporre soluzioni innovative. Non è una grande novità, perché anche nell’ «età dell’oro» non c’era solo la competizione sul prezzo con gli agenti. Se parliamo di employee benefit, per esempio, i broker sono stati i primi, negli anni Settanta, a portare in Italia i fondi previdenziali e quelli sanitari, quando nessuno ne parlava, con i primi progetti veramente complessi messi a disposizione delle aziende. Se oggi le imprese hanno la necessità di ridurre i premi, molti loro dipendenti non riescono ad arrivare alla fine del mese. Si tratta di guardare a questo mondo con occhi nuovi. Importante è misurare la redditività del singolo cliente e capire le singole necessità dell’azienda, che non sempre ha bisogno di soluzioni complesse. Va ricalibrata l’offerta; c’è bisogno di grande tecnologia, di riuscire a misurare la redditività a tre dimensioni (territorio, specializzazione, segmento). Marsh ha impiegato due anni, ma ora è in grado di valutare rapidamente se valga la pena di seguire un cliente o sia meglio di modificare il rapporto, valorizzando alcuni servizi fuori dal contesto tradizionale. Ci sono nuovi target da seguire: affinity, personal line, associazioni e nuovi rischi come la sostenibilità delle forniture (energia, materie prime), cyber risk. Nel prossimo futuro, la questione discriminante sarà la capacità di investimento. Chi avrà risorse per le tecnologie potrà disporre di servizi molto efficienti. E, anche con commissioni basse, riuscirà a creare mercati nuovi, che andranno a sostituire le fonti di ricavo che stanno venendo meno. In caso contrario, vedremo molte fusioni tra società di brokeraggio. Una cosa è chiara: il broker deve produrre valore aggiunto perché le polizze diventeranno una commodity.

 

Albini. Il limite della redditività non si può definire in maniera astratta, quasi a priori. Al contrario va calcolato in funzione del segmento di mercato e del singolo cliente a cui si riferisce. È chiaro a tutti ormai che i broker non possono più immaginare di poter servire tutti alla stessa maniera. Talvolta può capitare di fare offerte non coerenti, ma non può e non deve essere la regola, altrimenti questo conduce a un impoverimento della qualità delle nostre prestazioni. Io sono convinto che il broker è in grado di servire quasi tutti i tipi di cliente, a patto di farlo utilizzando strumenti di lavoro adeguati. Per esempio, se noi volessimo servire la fascia bassa delle Pmi con una metodologia tradizionale, il servizio offerto non sarebbe sicuramente all’altezza. Ecco perché, attraverso il target operating model (Tom), abbiamo individuato organizzazioni, processi e strumenti dedicati per ciascuna delle quattro macroaree del mercato: piccola impresa, middle market, large clients e affinity. Per le piccole imprese operiamo attraverso Willis italian network (Win), composto dei professionisti di altre 40 società di brokeraggio locali distribuite sul territorio nazionale, alle quali forniamo gli strumenti per servire con efficienza il target di riferimento. Un altro elemento del Tom è il progetto Sales 2.0, che ha lo scopo di formare professionisti ad hoc per il segmento medio del mercato. Questa metodologia di lavoro è stata ideata per consentire di offrire valutazioni strutturate dei rischi, in settori merceologici identificati come il food&beverage, il farmaceutico, le istituzioni finanziarie, consentendo di trasferire al segmento middle market le competenze maturate sulla clientela large. Riguardo al segmento large clients, invece, utilizziamo tutti gli strumenti che ci permettono di offrire consulenza, servizi e prodotti tailor made supportati dalle competenze dei nostri uffici specialistici. Quanto all’affinity (particolare segmento relativo a quei soggetti raggruppabili in un insieme omogeneo o in una categoria poiché accomunati dalle stesse esigenze peculiari) offriamo prodotti e servizi normalmente veicolati e amministrati via web. Infine, in termini di redditività e remunerazione, ritengo che il broker non debba provare alcun imbarazzo nell’essere veramente trasparente nei confronti del cliente. Willis dispone anche di un sistema di calcolo della redditività del cliente a livello di ogni singola polizza e ciò ci consente di qualificare meglio il valore del nostro lavoro ai nostri clienti, illustrando loro quante e quali risorse mettiamo a disposizione per le varie attività.

 

Profeta. In realtà, il tema della redditività costituisce la conseguenza ultima del profondo mutamento al quale oggi stiamo assistendo. A fronte della crescente richiesta di servizi proveniente dalla clientela (e che si riverbera automaticamente su di noi in termini di incremento di costi) stiamo assistendo a una progressiva riduzione dei nostri ricavi, sia in termini percentuali, sia assoluti. Questo accade per una serie di cause che riguardano anche il mondo del brokeraggio. In termini percentuali, al contenimento dei costi di acquisizione realizzato dalle compagnie, si è aggiunta la progressiva riduzione delle aliquote. Fondata sulla convinzione errata secondo la quale la provvigione del broker è un onere supplementare per l’assicurato. In questo modo si è confuso il «costo certo» con il «costo contenuto». Sembra incredibile che il fenomeno sia stato alimentato - direi «cavalcato» - anche da alcune aree dello stesso settore del brokeraggio, con modalità e misure che non esiterei a definire autolesionistiche.

 

Viganotti. A pesare sulla gestione delle società di brokeraggio c’è anche la normativa, che è molto onerosa e comprime soprattutto le realtà più piccole. Possiamo fare qualcosa per incidere sulla situazione, per cambiarla? Certamente sì. È però necessario che le associazioni di categoria si attivino per tutelare le società di brokeraggio, in particolare quelle medio-piccole. Da parte sua, Acb pensa che sia fondamentale diffondere la cultura assicurativa, aprendosi anche al confronto e al dialogo con il pubblico. La nostra scuola di formazione, L’Officina del sapere, vuole dialogare con il consumatore finale e fargli conoscere il mondo assicurativo in tutta la sua complessità. Queste sono azioni che vanno verso una maggiore apertura del mercato e una migliore conoscenza della figura del broker, per farne apprezzare la professionalità.

Si tratta, cioè, di tappe obbligatorie per superare le criticità e crescere.

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