Economia

Piazza Affari vale poco più di metà Apple

Piazza Affari vale poco più di metà Apple

Piazza Affari è ormai una Borsa Lilliput. Piccina piccina, ridimensionata oltre misura dalla crisi, con un contributo sempre meno palpabile alla ricchezza nazionale. Più che un semplice documento statistico, quello diffuso ieri da Consob sembra un bollettino di guerra. Racchiude sei mesi di passione del mercato azionario, di cadute verticali degli indici, stretti tra la morsa del debito sovrano e il rimpallo - durato troppo a lungo - tra i vertici dell'euro zona su quali strumenti adottare per affrontarla. Le cifre sono impietose.
Oggi il peso della Borsa sul Pil è pari appena al 21%, quando tra gennaio e giugno 2011 la percentuale era del 27,4%. Oltre sei punti spariti nel giro di un anno. Ciò significa che anche i rovesci azionari, oltre alle tasse e al crollo di consumi e investimenti, hanno dato un bel contribuito all'ondata recessiva che ha investito l'Italia. La colpa è del brusco dimagrimento subìto dalla capitalizzazione, crollata a 327 miliardi e mai così in basso negli ultimi due anni e mezzo, e di scambi a scartamento ridotto (a 154 miliardi dai 231,3 di fine giugno 2011). L'intera Piazza Affari, tanto per fare un confronto, vale dunque poco più della metà di Apple. E il gruppo della mela morsicata appare un autentico gigante tra le formiche se paragonato ai miseri 66,5 miliardi di valore dell'Eni, prima in Italia per capitalizzazione, seguita da Intesa Sanpaolo (17,5 miliardi), Unicredit (16,4 miliardi) e Generali (16,3 miliardi).
Il modesto peso di Piazza Affari è confermato proprio dalla presenza di due banche nella classifica sul valore borsistico. Ovvero, di due titoli del settore che più di tutti ha pagato un conto salato alla crisi. Se all'inizio del 2010 banche, assicurazioni e società finanziarie a Piazza Affari capitalizzavano 166,8 miliardi, a metà 2012 valevano appena 81,7 miliardi. Il problema è che la nostra Borsa sconta sia la carenza di grandi gruppi (un problema nazionale più che borsistico), sia la scarsa capacità di attrarre nuove aziende. I confini ristretti del recinto, spiegano in parte perché le prime 30 società per capitalizzazione rappresentano l'82,8% del valore totale. Una concentrazione che appare francamente eccessiva.
Con questi numeri, recuperare terreno sarà quantomeno difficile. Servirà un prolungato periodo di rialzo, oggi come oggi tutt'altro che sicuro se le incertezze che ancora riguardano il destino della Grecia torneranno a spaventare i mercati. Ieri, in assenza di notizie di rilievo dal fronte della crisi, i listini europei hanno chiuso in rosso anche a causa di alcune prese di beneficio. Dopo i progressi dei giorni scorsi innescati dalla decisione della Bce di acquistare bond dei Paesi in difficoltà, poi dall'ok tedesco al fondo salva-Stati e, infine, dalle nuove misure di allentamento monetario decise dalla Fed, qualcuno è passato all'incasso.

Milano, scesa dello 0,93%, ha forse pagato la rimozione da parte della Consob del divieto di vendere allo scoperto titoli assicurativi e bancari, nonostante il via libera non abbia riguardato le cosiddette vendite “nude“, quelle cioè senza la disponibilità di titoli al momento dell'ordine.

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