Economia

Gli Usa cancellano la sindrome Cina

Rivista al rialzo la crescita del Pil americano. Borse in rally (+3,4% Milano), l'Europa recupera 260 miliardi

La sindrome cinese? Cancellata, rimossa, forse mai esistita. Le stesse Borse che, appena lunedì scorso, sembravano inghiottite da un buco nero senza fine, ieri hanno rimesso la maschera del rialzo senza se e senza ma. Merito della Cina, fattasi improvvisamente iper-attiva dopo aver assistito dal balcone alla mattanza dei primi giorni della settimana? Sì, ma in parte. Shanghai ha rivisto la luce (+5,34%) grazie agli ulteriori 150 miliardi di yuan (23,4 miliardi di dollari circa) pompati dalla People's Bank of China nel sistema bancario, ma quanto si è visto qualche ora dopo in Europa e a Wall Street, un rally che stride come il gessetto sulla lavagna rispetto ai disastri del black monday , ha una matrice ben precisa: la crescita del Pil Usa nel secondo trimestre pari al 3,7%, ben superiore del 2,3% della stima preliminare, e lontana anni luce dal passetto malfermo del primo quarto (+0,6%).

Un progresso accolto dalla Casa Bianca con moderata enfasi («Occorre fare tutto il possibile per dare slancio all'economia») e con raffiche di acquisti dai mercati. A beneficiarne perfino le quotazioni del petrolio, balzate a New York di oltre il 7% sopra i 41 dollari il barile, non appena alcuni trader hanno puntato sul greggio per chiudere parte delle loro scommesse su un ribasso dei prezzi. Sui listini azionari ha dominato il segno più: in gran spolvero Milano (+3,39%), ma anche Francoforte, Parigi, Londra e Francoforte, tutte in rialzo di oltre il 3%. L'Europa ha recuperato 260 miliardi di capitalizzazione. Così come è stato robusto il progresso di Wall Street, che alle 20 ora italiana guadagnava il 2,2%.

Ma è davvero giustificato tutto questo entusiasmo per la crescita-turbo americana? La Casa Bianca ha motivato così la forte revisione rispetto alla prima lettura: i consumatori hanno speso di più e sono stati fatti più investimenti. Vero. L'esperienza però insegna che il dato sul Pil a stelle e strisce va trattato come i tappeti: bisogna vedere se la polvere è nascosta sotto. E la polvere c'è. È quella accumulata dalle scorte di magazzino, salite alla cifra record di 136,2 miliardi di dollari dai 124 miliardi della stima preliminare. Ciò ha determinato la (sensibile) correzione al prodotto lordo del dipartimento al Commercio. Dove, tuttavia, sanno benissimo che un livello così alto degli stock non è indice di particolare salute economica. Anzi: in prospettiva, rischia di essere fonte di guai seri. Le imprese sembrano infatti impastoiate dai problemi di smaltimento dei prodotti. La tentazione potrebbe dunque essere quella di sbarazzarsene, anche a costo di margini risicati (se non addirittura nulli) visto la deriva deflazionistica dei prezzi. Ma il surplus di scorte è destinato a rivelarsi un autentico boomerang già nel breve periodo a causa dell'effetto depressivo che avrà sulla produzione manifatturiera. Ovvio: chi ha i magazzini pieni non produce. Così, dopo aver risollevato il Pil tra aprile e giugno, l'eccesso di stock presenterà il conto nel terzo trimestre (o nel quarto). Con tanto di interessi.

Se qualche investitore si è preso la briga di analizzare il “boom“ del Pil, è probabile che ne abbia tratto la conclusione che la Federal Reserve si guarderà bene dall'alzare i tassi. Per i mercati è sempre una buona cosa, anche se significa che il sottostante (l'economia reale) vacilla.

All'appuntamento con la riunione del Fomc di metà settembre non manca molto, ma il fatto che Janet Yellen abbia disertato il simposio di Jackson Hole dimostra che se sul costo del denaro il dado è ormai tratto, la Fed deve ancora calibrare il modo di comunicarlo ai mercati.

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