Economia

Voglia di riscatto a Palermo

Voglia di riscatto a Palermo

Comincia dalla Sicilia il viaggio di BancaFinanza nella realtà economica e creditizia del Mezzogiorno, per capire come il binomio banca-impresa sta affrontando la tempesta. Tra difficoltà e problemi ma anche opportunità nonostante la crisi. Il tour, organizzato in collaborazione con Banca Nuova (gruppo Banca Popolare di Vicenza), comincia da Palermo. Seguiranno Catania e Caltanissetta perché lo scopo degli incontri è proprio quello di scandagliare il territorio e le sue peculiarità. All’incontro di Palermo hanno partecipato Andrea Monorchio ex ragioniere generale dello Stato e vicepresidente di Banca Popolare di Vicenza, fino al 27 settembre anche vicepresidente di Banca Nuova; Paolo Angius, attuale numero due dell’istituto siciliano; Umberto Seretti, direttore generale di Banca Nuova; Silvana Parisi, responsabile corporate di Banca Nuova; Giuseppe Signeri, responsabile territoriale del Credito Siciliano; Giuseppe Mistretta, presidente della Banca Don Rizzo; Antonio Cancascì, che guida il gruppo di famiglia operante nel campo del petrolio; Barbara Cittadini, presidente regionale e vicepresidente nazionale dell’Aiop (Associazione delle case di cura private), oltre che titolare della clinica Candela di Palermo; Giuseppe Russello, presidente di Omer (meccanica). A moderare il dibattito Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza e il giornalista Nino Sunseri.

Domanda. In che modo gli istituti di credito supportano le aziende durante questa crisi? E quali sono le ricette per la crescita?

Monorchio. Stiamo vivendo una situazione senza precedenti. Dopo questa crisi, nulla sarà come prima. L’Italia sta compiendo un percorso difficile ed è anche penalizzata da giudizi e da opinioni che non tengono conto dei dati reali. A cominciare, per esempio da una bilancia dei pagamenti strutturalmente in attivo. Un elemento di forza troppo spesso trascurato. In assenza non sarebbe stato possibile entrare nell’euro visto che, anche negli anni Novanta, il rapporto debito/Pil girava intorno al 122%, più o meno come oggi. Quindi doppio rispetto alle prescrizioni del trattato di Maastricht. Oggi il problema vero dell’Italia è la crescita. Dalle Alpi alla Sicilia. Per arrivarci bisogna dare un taglio netto al debito. Con Guido Salerno abbiamo immaginato un’operazione di swap. Si tratta di questo. Le banche hanno in pancia circa 250 miliardi di titoli di stato. Potrebbero cambiarli con quote di un fondo nel quale sono raggruppate le proprietà pubbliche. Si potrebbe stabilire un rendimento minimo di queste quote dell’1,5% con una spesa di circa 3-4 miliardi l’anno. Se in questo fondo lo stato mettesse anche un po’ di aziende che producono dividendi, sarebbe facile ottenerli. Quale sarebbe l’effetto? Per cominciare una plusvalenza del 20-25% sui bilanci delle banche, che potrebbero dare in garanzia queste quote per ottenere nuovi finanziamenti dalla Bce. Così da evitare problemi di liquidità. Dal canto suo lo stato oltre ad abbattere il debito darebbe un bel taglio agli interessi. Il risparmio sarebbe di almeno 12-13 miliardi, considerando che oggi sui Btp paga il 4-4,5%, mentre sulle quote l’interesse scenderebbe all’1,5%. Lo stato patrimoniale sarebbe sistemato e sarebbe sistemato anche il conto economico. Una parte dei risparmi, inoltre, potrebbe essere usata per abbattere la pressione fiscale. Il resto per le infrastrutture dando spinta alla crescita. Senza dimenticare che, avendo il bilancio in pareggio, lo Stato utilizzerebbe l’avanzo primario per ridurre il debito. Un circolo virtuoso che consentirebbe ogni anno un abbattimento del debito nell’ordine di 30-40 miliardi, che è quanto impone il fiscal compact per annullare il differenziale rispetto al 60% fissato dall’accordo di Maastricht.

D. Sembrerebbe una soluzione facile, logica. Non si capisce perchè il governo non l’adotta. Ma visto che siamo a Palermo vorrei concentrare il dibattito sulla Sicilia. Tanto più che il disordine finanziario della Regione è una delle cause che contribuisce alla fragilità dei conti pubblici nazionali: come uscirne?

Monorchio. Non c’è problema che non abbia soluzione. Si tratta soltanto di avere la determinazione per risolverli. In passato, anche per il mestiere che facevo, ho avuto l’opportunità di guardare i bilanci della regione e ho visto molti problemi. I più importanti hanno caratteristiche diverse rispetto alle altre amministrazioni. A cominciare dalle pensioni che la Sicilia paga direttamente. Oltretutto, utilizzando regole di estremo favore nei confronti dei dipendenti: il che fa piacere, ma se un ente pubblico offre dei regali deve poterselo permettere. Secondo me la riforma delle pensioni è l’operazione più urgente. Bisogna poi intervenire sul personale. Duole dirlo ma ogni ristrutturazione, per funzionare, deve partire dal costo del lavoro. Altrimenti non si va da nessuna parte. Inoltre la regione Siciliana spende molto per l’acquisto di beni e servizi. Altrettanto nei trasferimenti. Per chi non conoscesse il linguaggio della finanza pubblica, i trasferimenti sono erogazioni che l’ente pubblico compie senza avere a fronte nessuna controprestazione. In Sicilia dovrebbero essere annullati o comunque ridotti all’essenziale. Io non sono siciliano, ma calabrese, ma ho studiato qui e quindi della Sicilia parlo sempre con passione. L’industrializzazione, immaginata come sistema, secondo me non è la soluzione. Ci sono forme di artigianato, forme di impresa pulite su cui puntare. Il turismo che crea un indotto importante. Oppure la robotica e l’hi tech che possono essere sviluppati nel rispetto dell’ambiente. Inutile insistere con le lavorazioni inquinanti.

D. Sono stati chiamati in causa gli imprenditori...

Cancascì. Probabilmente sono la persona meno indicata a rispondere. Mi occupo di un settore, come il petrolio che non sempre va d’accordo con l’ambiente. Non c’è più spazio per le raffinerie. Stanno chiudendo perché troppo costose. Conviene più far arrivare la nave da un paese estero e poi occuparsi della commercializzazione. Non si scappa: siamo in profonda crisi. Per fortuna le banche ci stanno accanto. Io sono un cliente di Banca Nuova e di altri istituti con i quali mi trovo benissimo. Nessuna però esprime la vicinanza dimostrata da Banca Nuova e spero che questa caratteristica rimanga. Non penso tanto a noi, che comunque siamo un’azienda solida. Negli anni non abbiamo smesso di investire mettendo fieno in cascina. Penso ad altri imprenditori che purtroppo queste cose non le hanno fatte. Hanno sbagliato, ma la loro fragilità sta creando parecchi problemi anche alle aziende grosse come la nostra. Proprio in questo momento il sistema creditizio dovrebbe muoversi. Venire di più incontro alle esigenze dei piccoli imprenditori che hanno dei progetti validi, ma non riescono a metterli in atto perché le banche, anche loro in difficoltà, pensano soprattutto al rating. A tal proposito mi permetto di ricordare che la valutazione può essere buona solamente se un’azienda può produrre e vendere. Ma senza credito è impossibile. Viviamo tutti una situazione complicata, ma credo che le banche debbano veramente fare il loro dovere. Se fanno un passo avanti, sarà possibile innescare un volano di crescita con nuove idee e nuovi progetti: dal carburante al turismo. Io sono un imprenditore e mi trovo a parlare con colleghi che in questo momento, pur avendo progetti validi nel cassetto, sono fermi perché le banche non li supportano. Ribadisco il concetto: è un momento importante e serve uno sforzo da parte di tutti.

D. Insomma chiede alle banche di avere più iniziativa, un approccio meno notarile. Di essere imprese che si assumono anche dei rischi.

Cancascì. Dico sempre che, per le banche, noi siamo la materia prima. Senza gli imprenditori che farebbero? Aggiungo: non serve a molto dare credito a noi che siamo solidi. Bisogna curare il mio cliente che altrimenti non può pagare le fatture e, se non si risolve il problema anche imprese come la nostra prima o poi potrebbero avere dei guai. Confesso: sono molto sfiduciato e ho paura. Sono giovane, ho 44 anni, e dovrei parlare di altre cose, di progetti e di nuove idee, invece mi tocca raccontare le difficoltà. La mia azienda fattura circa 60 milioni. Non è grande ma neanche piccola. Questi sono momenti complicati. Se la banca non si assume impegni precisi, soprattutto quelle locali, ci saranno enormi difficoltà per le imprese. Soprattutto se hanno problemi di accesso al credito. Le banche chiuderanno i conti e sarà una spirale che, inevitabilmente, coinvolgerà anche le realtà più grandi. Serve un piccolo passo avanti verso imprenditori validi, perché ce ne sono parecchi in Sicilia.

D. Che cosa risponde il banchiere al grido di dolore che arriva dalle imprese?

Seretti. Nel 2011 gli investimenti nel manifatturiero in Sicilia sono diminuiti dell’8,7%. La percentuale delle aziende che hanno chiuso il bilancio in utile si è ridotta al 52%: una su due. Le altre sono in pareggio o in perdita. L’occupazione, per il quinto anno consecutivo, è diminuita. Il tasso di disoccupazione ha superato il 15%. Non parliamo della cassa integrazione, aumentata quasi del 20%. Nonostante questo, il mondo bancario siciliano nel 2010 ha erogato il 5,6% in più rispetto all’anno precedente e nel 2011 ancora un aumento del 3%. Ha sempre erogato più della percentuale di crescita della produzione. Pochi i segnali positivi. Il turismo, per esempio, con i pernottamenti degli stranieri saliti del 4%, e la spesa associata a loro quasi del 6%. Ma il turismo è una ricchezza non sfruttata. Servono infrastrutture, investimenti, una politica di accoglienza, una rete, la logistica. Tutte cose che mancano.

D. Cosa fanno le banche per favorire lo sviluppo del turismo?

Seretti. Continuano a erogare credito. Quelle del territorio, come le tre presenti a questo tavolo che portano avanti una politica – mi permetto di parlare anche per gli altri, ma i colleghi potranno correggermi – un po’ diversificata rispetto alla concorrenza. Cioè, la nostra capacità di guardare, capire e conoscere l’imprenditore, la sua storia, la sua famiglia, il suo percorso storico, si affianca ai modelli statistico-matematici del rating o delle valutazioni metriche, per cui spesso riusciamo a erogare credito anche dove magari il semaforo non ci aiuta. A Palermo il contesto è ancora più difficile. Il rapporto sofferenze-impieghi, nelle media nazionale all’inizio del 2012, rispetto all’inizio del 2011, è aumentato del 37% e non c’è differenza fra nord e sud. Lo squilibrio invece c’è con la Sicilia, dove l’aumento è del 58%. A Palermo addirittura dell’83%. Ecco che diventa un esercizio assolutamente non banale quello di capire chi merita e chi non merita. Noi cerchiamo di farlo, continuiamo a erogare. La domanda di credito però è crollata, la qualità deteriorata. Noi siamo una banca che nonostante tutto continua a investire. Se il nostro territorio vive viviamo anche noi, se il nostro territorio soffre, soffriamo anche noi. Siamo legati a doppio filo e il nostro interesse è l’interesse che ha manifestato prima Cancascì. Non siamo in conflitto.

Parisi. Come banca del territorio non ci limitiamo a stare in direzione generale a guardare i rating, le carte, i bilanci. Io vado a visitare le aziende: osservo come gira il modello produttivo e anche il clima che si respira sul posto di lavoro. Può sembrare banale ma è importante vedere le facce dei collaboratori dell’imprenditore, non solo parlare con lui. Oggi è un momento difficile. Quasi impossibile trovare negli ultimi due anni bilanci con indicatori in crescita, tranne eccezioni di nicchia. La cosa vera, di cui secondo me si parla poco, è un’altra: è diminuita e si è modificata la domanda del credito.

D. Perche?

Parisi. Perché le aziende che prima acquistavano a stock oggi fanno gli approvvigionamenti solo se c’è un ordine o un progetto di ordine, per evitare magazzino. Parliamo di aziende che vanno anche bene. Si preferisce non vendere senza l’assicurazione del credito, come non avveniva da anni. Pochi investimenti. Le richieste di finanziamento a medio e lungo termine riguardano quasi sempre operazioni di consolidamento, ristrutturazione e allungamento del debito. Credo che la cosa più qualificante del rapporto banca-impresa sia il dialogo e la competenza dei due attori principali. Intanto l’imprenditore, che non deve venire a chiedere credito senza la consapevolezza della propria situazione finanziaria e della possibile evoluzione. La banca, che deve essere molto professionale perché troppe volte, in passato, ha aperto i cordoni in maniera talmente maldestra da diventare complice di alcuni dissesti finanziari. Quando siamo nati come Banca Nuova ci siamo chiesti cosa potessimo avere di diverso rispetto al sistema. Io non credo che ci sia un irrigidimento da parte delle banche. Mi rifaccio all’intervento di Cancascì, che diceva «La mia impresa solida, abbiamo consolidato le riserve». Attenzione, perché oggi è imprenditore chi ha fatto questo. Se la sua azienda, con 60 milioni di fatturato, avesse ancora il capitale sociale di quando abbiamo iniziato saremmo messi molto male. Le rare volte in cui abbiamo detto di no è stato perché avevamo la sensazione che non ci credesse nemmeno l’imprenditore. Se non ci credi, se non sei disposto a garantire te stesso, non vedo perché la banca dovrebbe farlo.

Domanda. Silvana Parisi ha citato la sanità...

Cittadini. Sono un imprenditore della sanità e rappresento le 58 aziende ospedaliere private che esistono sul territorio regionale. Questo rischia di rendere la mia esperienza anomala, rispetto agli altri imprenditori seduti al tavolo, perché lavoriamo prevalentemente con la Regione siciliana. Ero indecisa se definirla anomalia o peculiarità. Mi sarebbe piaciuto parlare di peculiarità per non dare un accento negativo, ma la pancia ha lavorato meglio della testa. Inutile che io qui illustri la complessità del rapporto con la regione. Però devo fare due o tre cenni per far comprendere le difficoltà che hanno vissuto le aziende sanitarie in questi ultimi anni. La Sicilia è soggetta al piano di rientro a valere sugli anni 2007, 2008 e 2009. La riduzione del tetto di spesa è stato di 150 milioni su 500. Assorbirla non è stato facile. Ha destabilizzato molte aziende. Ma devo dire che la quasi totalità è riuscita a riorganizzarsi. Ricordo che questo piano di rientro non era solo un piano di razionalizzazione economica, ma anche di qualificazione dell’offerta. Da un lato venivano meno le risorse, dall’altro ci veniva chiesto di adeguarci a una domanda di salute che era cambiata. Tutto questo non solo con minori risorse, ma anche con grandi ritardi di pagamento. Talvolta sette-otto mesi. Le banche ci sono sempre state vicine. Un impegno importante, tenuto conto che nel 2007, poco prima che cominciasse l’austerity abbiamo dovuto adeguare le strutture ai nuovi requisiti strutturali, tecnologici e informatici. Riprendendo l’accenno di Silvana Parisi ricorderò che le criticità maggiori sul fronte degli incassi ritardati sono state affrontate con lo strumento del factoring. Pro soluto o pro solvendo, a seconda del contesto politico-economico della regione. È stato uno strumento fondamentale, che ci ha consentito di affrontare la quotidianità con maggiore serenità.

D. Insomma tutto bene. Un esempio positivo di collaborazione fra banche e imprese.

Cittadini. Il problema maggiore nel mio settore, ma non solo, è la dimensione delle aziende. Tutte piccolissime. Sono 58 ma, come posti letto e fatturato, sono assimilabili, probabilmente, a una o due aziende della Lombardia. Il mio compito istituzionale è difenderle, ma devo ammettere che la dimensione sta diventando un problema sia dal punto di vista dell’equilibrio economico, sia per la qualità dell’offerta. Purtroppo diventa un problema anche sotto l’aspetto creditizio, perché capisco la difficoltà di finanziare realtà così piccole.

D. Che volete fare?

Cittadini. Stiamo immaginando percorsi di aggregazione purtroppo non facilissimi. Per fare un’azienda di 300 posti letto ci vogliono 70-80 milioni: ottenerli non è semplice e restituirli ancora meno. Avere i permessi dalla regione diventa un’utopia. Il percorso è complicato, ma siamo assolutamente consapevoli che è ineluttabile e fondamentale per il futuro.

D. Parliamo di fondi comunitari. La Regione siciliana è una delle principali destinazioni di queste risorse. Però fatica a spenderli per i ritardi nei processi di attuazione...

Russello. Prima di rispondere vorrei fare qualche precisazione sugli argomenti trattati finora. Vorrei fare un ragionamento un po’ più ampio, trasversale, che tocchi certi aspetti di natura antropologica, sociale e culturale. Sono un ingegnere meccanico, ma vedo che i sistemi economici sono governati da processi un po’ più complessi, per cui addebitare le responsabilità solo alle banche – anche loro imprese, ricordiamolo – mi sembra riduttivo.

D. A questo tavolo sta avvenendo un inedito rovesciamento delle parti. Gli industriali che difendono i banchieri...

Russello. Chiarisco il concetto iniziale. Parliamo solo della Sicilia che altrimenti diventa complicato: il degrado è talmente profondo e incancrenito che caricare le responsabilità solo su una componente è riduttivo. Se ognuno fa il proprio mestiere probabilmente il sistema viaggerà meglio. Diventa un alibi scaricare tutte le colpe sulla regione, che pure ha responsabilità enormi, ma non è l’unica. È fuor di dubbio, per esempio, che qualche imprenditore probabilmente avrà goduto di molti benefici che altri avranno pagato. Difficile usare l’accetta.

D. In concreto?

Russello. Si è parlato del turismo. Un’impresa di grande complessità. Se devo avviare un investimento nella mia azienda vado a cercare i migliori tecnici, la gente più motivata, la porto dentro e forse posso competere con il mondo. Avrò qualche difficoltà a spostarmi in aereo perché arrivare a Palermo è un disastro, mi vergognerò con i clienti, perché c’è una zona industriale fatta in un certo modo, ma riesco ancora a farlo. Far venire la gente da fuori significa, invece, avere un sistema di infrastrutture efficienti, un’amministrazione che funziona, servizi moderni. Una complessità da organizzare. È il progetto più ambizioso che possiamo immaginare. La Romagna non ha un grandissimo mare, ma ha i romagnoli, che sono grandi lavoratori, che si mettono lì e faticano, che non dicono che la colpa è del governo qualunque cosa accada. Questa è la battaglia più difficile che noi siciliani siamo chiamati a vincere. Lo dico con la morte nel cuore, ma il più grande disastro per noi è stata l’autonomia. Do a mio figlio l’autonomia se vedo che è capace di gestirsi, altrimenti gli tolgo tutto.Abbiamo sprecato gli ultimi 20-25 anni. Sarà complicato recuperare. L’attacco mediatico cui è sottoposta la Sicilia la dice lunga sul grado di insofferenza del resto d’Italia nei confronti dell’isola. È indegno avere 30.000 forestali. Quando vado in giro mi chiedono chi sono i camminatori. Cosa gli spiego? Anche negli affari questo ha un impatto, perché dietro le aziende ci sono uomini, ci sono i posti dove vivono e questo rende più difficile il lavoro quotidiano. Io resto ottimista, ma i dubbi rimangono

D. Parliamo dei fondi strutturali?

Russello. Sono lo strumento per fare gli investimenti di cui oggi la Sicilia ha bisogno. Se per andare da Palermo a Catania impieghiamo cinque o sei ore, sfido qualunque turista finlandese a venire. Purtroppo l’impiego di questi fondi è lento perché manca la quota di cofinanziamento della regione, che ha impiegato le risorse per pagare i forestali. Sprechi invece dello sviluppo. Tempo che si perde. Basta pensare che Palermo è collegata all’aeroporto da un’autostrada che è stata costruita nel 1960 e progettata negli anni Cinquanta...

D. Forse l’avvocato Angius può dirci qualcosa di più sul tema dei fondi strutturali.

Angius. Sono vice presidente di Banca Nuova dal 27 settembre. Faccio l’avvocato, quindi spesso mi capita di assistere imprese, nel mio caso tutte del nord est, che vogliono investire in Sicilia. Fino a qualche anno fa l’incentivo era rappresentato proprio dai fondi comunitari. La contribuzione negli ultimi quattro-cinque anni in pratica si è ridotta a zero. È successo perché il governo regionale non ha creato gli strumenti idonei per consentirne l’utilizzo. Mi è capitato di gestire una delle prime società, forse l’unica ai tempi, di biotecnologie, che da prodotti di eccellenza siciliani - come l’arancio rosso di Ribera, il pistacchio di Bronte, il Nero d’Avola - estraeva degli antiossidanti che erano alla base della cura che faceva Papa Giovanni Paolo II per il Parkinson. Avremmo avuto la possibilità di farla insediare in Sicilia. Purtroppo il progetto non è andato in porto e, per quanto ne so, non ci sono più imprenditori che vengono in Sicilia. Il problema non è solo la mancanza dei fondi comunitari, che comunque erano un bell’incentivo. A terrorizzare è la pochezza della politica e della burocrazia regionale. Alcuni miei clienti hanno acquisito nel 2004 una proprietà pari a circa due terzi dell’isola di Levanzo. L’investimento è avvenuto prima dell’approvazione del piano paesaggistico delle Egadi. Badate bene: approvazione, non pubblicazione, che la trasforma in legge. L’operazione è immobilizzata da otto anni. Con quadro politico e amministrativo così incerto diventa impossibile attrarre imprese in Sicilia. Questo è il vero dramma della nostra isola.

D. Quale dovrebbe essere il primo impegno della nuova legislatura?

Angius. L’efficienza della macchina amministrativa. La Sicilia nel 2006 aveva creato una società in cui conferiva tutto il patrimonio immobiliare della regione. Ne sono stato vicepresidente per cinque anni. Nel capitale c’era anche Banca Nuova, ai tempi in cui non ne facevo parte. Era un progetto straordinario. La missione era quella di accorpare tutto il patrimonio immobiliare della regione, in parte per migliorarne la gestione e in parte per venderlo. In quattro anni e mezzo – attesa l’avversità totale della politica – siamo riusciti esclusivamente a rinnovare un po’ di canoni di locazione e a fare un po’ da sostituti dell’ufficio tecnico erariale perché di dismissione non se n’è potuta fare una. Una società che aveva sempre chiuso i bilanci in attivo, quasi un record per una partecipata al 75% dalla regione, non ha funzionato per colpa della regione stessa che l’aveva creata.

D. Parliamo adesso del rapporto tra le banche e gli enti locali. Drammatico, viste le condizioni in cui si trova la regione...

D. Signeri. È evidente che oggi ci troviamo di fronte a un passaggio delicato. La centralizzazione delle tesorerie ha creato molti problemi. Dobbiamo farci carico dei servizi e degli impieghi verso la pubblica amministrazione senza più poterne gestire la liquidità. Uno squilibrio che crea tensioni. Per quanto riguarda le imprese che lavorano con la pubblica amministrazione, devo dire che se il sistema, nel 2011, ha erogato il 3% in più, noi siamo al 7%. È il doppio, avendole sostenute perchè non hanno ricevuto i pagamenti in tempi adeguati. Ma non siamo un’istituzione, siamo un’impresa. Abbiamo aiutato i nostri clienti con operazioni di consolidamento, di accompagnamento e con tutto ciò che era necessario per superare l’emergenza. Quasi l’80% delle aziende ha usufruito della moratoria, un altro degli strumenti messi a disposizione del sistema bancario. Abbiamo fatto il possibile ma oggi, quando ci troviamo di fronte un’azienda che ha come cliente principale un ente pubblico siamo costretti a fare delle valutazioni. Il circuito si è bloccato. Non possiamo sostenere il pagamento a 360 giorni, se non di più. L’opinione diffusa tende a scaricare la responsabilità sulle banche. Noi vorremmo fare di più ma non ce la facciamo. Questa è la realtà.

D. Come pensate di procedere?

Signeri. L’imprenditore deve essere molto più trasparente con noi. Noi non siamo dei consulenti. Ma non siamo nemmeno una controparte arcigna perche se l’impresa non va bene, soffriamo anche noi. Aggiungo. Nel caso di bocciatura l’imprenditore non deve cercare altre banche sperando di avere maggior fortuna. Una volta, forse, poteva succedere. Oggi non più. Deve fidarsi della nostra capacità di capire e conoscere le dinamiche del mercato. Inutile proporre il progetto dell’albergo a 12 stelle con 5.000 saune se dietro non c’è la forza per reggere l’investimento. Meglio un’iniziativa più circoscritta ma che abbia una sua utilità.

D. Banche locali: una realtà particolare?

Mistretta. Nell’opinione comune, la banca locale finanzia sempre e comunque. Abbiamo cercato di spiegare che non è così. Lavoriamo con famiglie e imprese che sono le realtà maggiormente colpite dalla crisi. Una scelta che ha fatto aumentare gli incagli. Per circoscrivere i rischi non ho difficoltà a riconoscere che abbiamo limitato gli impieghi. L’anno scorso erano aumentati del 3%, nel primo semestre 2012 sono diminuiti dell’1,8%. Dobbiamo lavorare con molta prudenza. Il rapporto impieghi-depositi è pari al 91%, per cui gli impieghi non superano mai la raccolta. Da questo punto di vista non abbiamo problemi di liquidità. Quindici anni fa abbiamo scelto di concentrarci sul nostro territorio perché vogliamo operare con la lente di ingrandimento. Se decidessimo di spostarci verso est, rispetto alla città di Palermo, anche se parliamo di territori piccoli, andremmo in realtà che la banca non conosce e non può presidiare con adeguati standard di efficacia. La nostra forza consiste nell’essere una cooperativa, la più grossa dell’Italia meridionale. Abbiamo 4 mila soci. Un patrimonio di grande valore, perché il rapporto che ci lega al socio non è solo quello che deriva dal principio cooperativistico, della mutualità e della reciprocità, quanto dalla conoscenza personale, che ci permette di distinguere le imprese che possono essere finanziate dalle altre. Nonostante questo, gli incagli nell’ultimo anno e mezzo sono aumentati di dieci volte. All’inizio degli anni Duemila avevamo fatto la scelta strategica di orientare lo sviluppo verso i territori costieri e rivieraschi. Pensavamo che il turismo sarebbe stato una leva formidabile di crescita. Purtroppo i risultati sono stati inferiori alle attese. La classe politica, in questo senso, è stata veramente latitante. Ma nel territorio in cui operiamo c’è una piccola realtà, degna di nota. Si tratta di San Vito Lo Capo, che registra l’85% delle presenze turistiche nella provincia di Trapani. È uno dei pochissimi casi in cui la Regione siciliana ha allocato le risorse in modo efficiente in termini di comunicazione. Il territorio ha reagito. Non ci sono grandi alberghi. In gran parte case che vengono affittate per le vacanze e piccolissime strutture ricettive. Questo per dire che lo sviluppo del turismo in Sicilia non è un miraggio. E poi stiamo notando un certo riavvicinamento all’agricoltura. Un vantaggio in termini di ricchezza e di modello produttivo, che supera il sistema assistenziale cui la regione ci aveva abituati. Vedete, la nostra banca nasce nel 1902 ad Alcamo, in un territorio prevalentemente agricolo. Negli anni abbiamo dovuto cambiare strategia perché quel tipo di economia non creava ricchezza. Con l’arrivo dei giovani la situazione sta cambiando e anche noi stiamo lentamente tornando alle origini. Per esempio: stiamo facendo partire un master sulla cooperazione. Da noi la cooperativa è sinonimo di malaffare, ma altrove ha funzionato benissimo. Se prendiamo il Trentino-Alto Adige: il consorzio Melinda dà lavoro a 2.000 famiglie. Perché questo non si può fare con le arance e i limoni? Temo si tratti di fatti culturali, come dimostra la crisi dell’arancia Rosaria, nata a Catania qualche anno fa. Stava andando bene. Poi si è fermata.

Angius. Vorrei riallacciarmi alle parole di Mistretta e dare una risposta a Russello sul tema delle infrastrutture. Per esempio, l’aeroporto di Trapani, di cui sono stato presidente e di cui attualmente sono vicepresidente. Nel giro di tre anni siamo passati da un volato di 200.000 passeggeri a oltre 2 milioni, con un impatto sul Pil della provincia di quasi un miliardo di euro. Una cosa straordinaria, con una contribuzione del pubblico, in tre anni, inferiore ai 2 milioni. Se pensiamo a questi numeri e se pensiamo che Comiso è chiusa, e la provincia di Ragusa è quanto di più ricco e sano in questo momento può offrire la Sicilia; se pensiamo a come potrebbe arricchirsi tutta quella zona, integrando i campi da golf, il turismo di eccellenza, l’enogastronomia, avremmo dei numeri, con una spesa da parte del pubblico minimale. L’aeroporto di Comiso non apre perché c’è un contenzioso (probabilmente corretto in linea di principio, ma assurdo sul piano economico) di 3 milioni di euro da pagare ai vigili del fuoco. Una spesa che l’aeroporto di Comiso, essendo privato, non può scaricare sullo stato. Il paradosso di Trapani salta subito all’occhio. Se leggiamo i dati sul turismo vediamo che un passeggero che atterra martedì, al massimo il giovedì è andato via. Il territorio, che pure ha Segesta, Selinunte, Erice, Trapani, Marsala, lo fa scappare, perché non ci sono le infrastrutture turistiche pronte a fermarlo. Se pure è uno sviluppo virtuoso – sono cresciuti tanti piccoli alberghi, bed & breakfast, ristoranti, che prima aprivano due giorni a settimana e che ora aprono sette giorni su sette – non siamo ancora in grado di assorbire tutta la potenzialità che la nostra terra darebbe, con vantaggi straordinari in termini economici. L’altra parola chiave che ho letto nelle parole di Mistretta è la comunicazione. Ero a cena a Londra con persone d’affari del posto ed eravamo meravigliati, perché nell’attesa di entrare al ristorante sono passati sei taxi con la scritta Sicilia da entrambi i lati. La prima battuta è stata: «Non sanno come spendere i soldi». Poi ci abbiamo ripensato e l’abbiamo trovata geniale. Finalmente una pubblicità mirata. Mettere la parola Sicilia nel nostro aeroporto non ha nessun senso, mentre bisogna portare il messaggio a casa del potenziale turista.

Se la Sicilia si mette a fare quello che sa fare meglio credo che anche la regione darebbe il meglio di sé.

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