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L'eroe soldato del Libano che la sedia a rotelle non è riuscita a fermare

Nel 2006 difendeva la tregua tra israeliani ed Hezbollah. Una bomba lo ha colpito. Oggi le sue battaglie sono sui campi sportivi

L'eroe soldato del Libano che la sedia a rotelle non è riuscita a fermare

«Mi dica pure, sono già seduto... da lungo tempo». Il «lungo tempo» del tenente colonnello Roberto Punzo non si misura più in minuti ed ore, ma in settimane, mesi ed anni. Le settimane della speranza. Seguite dai mesi dell'illusione. Cancellati dagli anni della consapevolezza. Ora sono già dieci. Dieci anni in cui una carrozzina s'è trasformata da buco nero a piedistallo della riscossa. Una riscossa difficile da immaginare quel 22 luglio 2006 quando lo guardo scendere in barella dall'elicottero atterrato sulla piazzola dell'ospedale Al Rambam di Haifa.

«Il capitano Roberto Punzo - scrivevo allora su il Giornale - dorme ancora, sprofondato nell'oblio degli analgesici, tra il sussurro del respiratore e il verde della rianimazione. Non sente l'urlo delle sirene, non sente il borbottio di chirurghi ed infermiere, non sente le fitte di quelle ferite nel profondo dell'addome. Lui dorme. Attorno al suo giaciglio si spera». Qualche ora prima era ancora lì, in quella base diventata tana, gabbia e trappola. Nei codici Onu di quel luglio 2006 è semplicemente Pb Ras, una sigla che ben difficilmente rende l'avventata provvisorietà di un «non luogo» sospeso nel mezzo di una guerra e difeso soltanto dalla bandiera azzurra dell'Onu. Una guerra tra gli israeliani decisi a prendere il villaggio di Marun Ras e i militanti armati di Hezbollah decisi a difenderlo.

In mezzo a guardare, annotare, riferire, senza neppure un'arma, l'allora capitano Roberto Punzo con la divisa dell'esercito italiano e il distintivo di osservatore dell'Onu. Certo la missione iniziale è un'altra e nessuno, né lui, né sua moglie Alessandra, né sua figlia, possono immaginare quella sporca maledetta variabile chiamata guerra. Ma poco cambia.

Per un militare come Roberto, come Marc, Lars e Xinjian, il belga, il danese e il cinese ultimi difensori di quella fortezza Bastiani in un Deserto dei Tartari a scenario invertito la guerra è, in fondo, sempre un evento atteso. Evocato. A volte financo sperato. Anche quando, come ricorda Punzo, la «la Pb viene colpita tre volte». Anche quando una granata colpisce il secondo piano «ed io che mi trovavo sull'ingresso vengo spostato fuori di tre passi». Anche quando i quattro s'attendono il cambio e dall'Onu arriva, invece, l'ordine di non muoversi, di continuare a monitorare, di restare ad osservare. Fino a quel 22 luglio quando la guerra finisce e la vita riparte da zero.

«Sento uno sparo... avverto una fitta, un calore alla schiena... comincio allora a gridare di essere stato colpito e chiedo aiuto... le gambe sono contratte, piegate... mi tolgono gli scarponi e comincio a non sentire più i miei piedi. Poi le gambe. Poi i glutei».
Poi il buio di cinque interventi chirurgici, l'angoscia di una scelta diventata condizione di una famiglia costretta attorno alla sua carrozzina. L'angoscia riassunta in una semplice domanda. «Che cosa ho fatto?». Ad Alessandra basta la risposta più semplice, più naturale. «Anche in mezzo alla guerra - dice lui - sono stato l'uomo che avevi scelto e sposato». Lei s'accontenta. Roberto no. Lui quel baratro nero lo chiama vulnerabilità. La vulnerabilità sperimentata a Ras Marun disarmato in mezzo ai proiettili. La vulnerabilità diventata ora condizione fisica quotidiana. La vulnerabilità psicologica aggiunta da una burocrazia che prima di riaccoglierlo lo deve dichiarare inutile.

«Succede nel 2008, so che è un passaggio obbligato per il richiamo nel ruolo. Eppure il sangue versato, il dolore, le lacrime, le nebbie della morfina sono nulla rispetto al buio del momento in cui ascolto quel medico della Commissione Militare pronunciare la sentenza, dichiarami non idoneo al servizio militare incondizionato in modo permanente ed assoluto. Credimi, sentirti dire che non vai più bene pur avendo fatto il tuo dovere, è la cosa peggiore che possa capitare». Poi però quella vulnerabilità diventa una leva. «Da bersagliere e pilota di elicottero non l'ho mai sperimentata. Vivendola scopro che arricchisce, ti fa guardare agli altri con empatia, capire posizioni altrimenti incomprensibili. In quei tempi supplementari della vita imparo a piangere, a chiedere aiuto».

Da lì incomincia la resurrezione dell'uomo, il ritorno del soldato. Il Roberto Punzo, diventato oggi tenente colonnello, insignito con una medaglia di bronzo al valore militare, arrivato ai mondiali di badminton e reduce dagli «Invictus Games» di Orlando dove contribuisce al terzo posto della squadra italiana di tiro con l'arco, ricorda così il diradarsi delle nebbie. «Prima del ferimento la felicità era qualcosa di psico-fisico. Temevo di non rincontrarla. Mi chiedevo se valeva ancora la pena di vivere. Invece un giorno, al saggio di pianoforte di mia figlia, capisco che vivere ha un senso anche solo per vederla crescere e migliorare».

Il passo successivo è la scoperta dello sport, del badminton, del tiro con l'arco con la sedia a rotelle. «L'invalidità ti porta a isolarti, crea una dissociazione tra la tua condizione fisica reale e quello d'una memoria che t'illude d'essere quello d'un tempo. Lo scopri banalmente, rotolando per terra dall'auto mentre pensi di recuperare con un balzo la carrozzina che fugge in discesa. Il para-badminton, il tiro con l'arco, la gioia di muovere il dorso, di sporgermi dalla sedia, mi regalano una felicità anche fisica che pensavo irrecuperabile».

Eppure guardando indietro, guardando alla guerra combattuta in divisa prima, in carrozzina poi, il tenente colonnello Roberto Punzo non si sente né vinto, né sconfitto. «La miglior definizione - dice - l'ho scoperta in quel codice di disciplina militare che definisce l'obbedienza come consapevole partecipazione. Restando nella base di Ras Marun ho consapevolmente contribuito a tener alta la bandiera dell'Onu in mezzo alla guerra. Oggi continuo a partecipare consapevolmente alle circostanze della vita con mia moglie e mia figlia. Decidere di vincere o di perdere... non spetta a noi. Possiamo solo affrontare gli eventi ricordandoci che intorno c'è sempre qualcuno per cui le nostre scelte non sono indifferenti.

Solo così possiamo tornare ad essere autori della trama della vita e ricordare che non siamo quello che la vita ci ha fatto, ma quello che faremo».

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