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I caschi blu indiani? Li processano in patria

I nostri marò trattenuti per altre due settimane: così vengono usati due pesi e due misure

I caschi blu indiani? Li processano in patria

I nostri marò resteranno sicuramente in carcere per altri 15 giorni senza la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari all'indiana come sperava la diplomazia. Lo ha deciso in soli 15 minuti il magistrato della corte del Kerala che sta giudicando i fucilieri di marina accusati di aver sparato a due pescatori durante una missione anti pirateria.
Peccato che New Delhi usi tutto un altro metodo con decine dei suoi caschi blu che si sono macchiati di porcherie, dai reati sessuali, al traffico d'oro fino al favoreggiamento dei signori della guerra locali nella missione Onu in Congo. Prima li porta a casa e poi indaga con la corte militare. Più o meno è lo stesso trattamento che chiede l'Italia con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Ovvero il trasferimento in Italia per venire giudicati da un nostro tribunale.
Sul difetto di giurisdizione l'Alta corte del Kerala ha rinviato l'udienza a domani, dopo due ore di dibattimento. Gli avvocati indiani dei marò puntano a dimostrare che non si può applicare la giustizia di New Delhi per un incidente avvenuto al di fuori delle acque territoriali. Se i giudici non accogliessero la richiesta italiana, come è probabile, bisognerà fare ricorso alla Corte suprema a Delhi perdendo altri sei mesi.
Latorre prima di tornare in carcere nella capitale dello stato del Kerala si è ricordato che ieri era il 19 marzo e ha fatto gli «auguri a tutti i papà», come lui. Poi i marò hanno chiesto la televisione attraverso il loro avvocato difensore.
L'India usa due pesi e due misure costringendo in galera i fucilieri italiani, arrestati in missione antipirateria, ma facendo sempre rimpatriare i loro caschi blu coinvolti in vere e proprie nefandezze durante le operazioni Onu. Nel 2008 un'inchiesta interna dell'esercito indiano confermava che una decina di militari impegnati con le Nazioni Unite in Congo, erano coinvolti in diversi reati. Si andava dal traffico d'oro alla detenzione illegale di civili congolesi, fino agli abusi sessuali. I rapporti dell'Onu hanno accusato i caschi blu indiani anche di sfruttamento della prostituzione minorile. Non solo: Chand Saroha, un colonnello indiano, ha addirittura appoggiato pubblicamente un signore della guerra locale, Laurent Nkunda, accusato di crimini di guerra definendolo «un fratello».
Il personale indiano sotto accusa viene riportato a casa, nonostante le proteste dei congolesi. Solo due sottufficiali e un tenente sono stati condannati in patria, ma la maggior parte subisce solo provvedimenti disciplinari. Lo scorso anno è saltato fuori che ben 51 militari (12 ufficiali e 39 soldati) sono sospettati di porcherie in Congo. In gran parte fanno parte del 6° battaglione di fanteria leggera Sikh. In Congo hanno raccolto prove del Dna su bambini con fisionomia indiana nati nelle aree dove si trovavano i caschi blu di New Delhi. Le accuse variano dallo stupro allo sfruttamento della prostituzione fino al semplice fraternizzare con le congolesi che è proibito.
In questo momento ci sono 4554 soldati indiani nella missione dell'Onu in Congo di oltre ventimila uomini. I caschi blu di New Delhi sono sempre stati l'ossatura dell'operazione, ma non sono riusciti ad evitare terribili massacri e la reputazione degli indiani è crollata sotto il peso delle accuse di vari abusi. A questo punto risulta ancora più assurda l'ostinazione indiana di tenersi i marò, intercettati in acque internazionali, mentre i loro caschi blu la fanno franca.
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