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In Iran svolta soft per non cambiare

Storico successo di Rohani al primo turno: così l'Occidente dovrà trattare su sanzioni e Siria. Rafsanjani: "I nostri nemici non potranno più dire che non siamo democratici"

In Iran svolta soft per non cambiare

Fino a ieri era incredibile, impossibile e inammissibile. Ora è realtà. Hasan Rohani, il candidato riformatore conquista la presidenza al primo turno con il 50,68% dei voti. Dunque niente ballottaggio e niente incertezze. La Repubblica Islamica manda in pensione Mahmoud Ahmadinejad e le sue esternazioni per tornare all'era di Mohammad Khatami, il presidente gentile, rispettato dal mondo, ma incapace di cambiare il regime. Congedati l'ex sindaco di Teheran Mohammad Bagher Qalibaf e il negoziatore nucleare Saeed Jalili, grandi favoriti di ieri, bisogna ora capire cosa si nasconda dietro una vittoria inattesa nell'esito e nelle proporzioni. Hasan Rohani, il candidato «improbabile» in cui non speravano neppure i riformatori, raccoglie da solo 8 milioni di voti in più dei due più agguerriti concorrenti. 18 milioni e 600 mila voti contro i 6 milioni di Qalibaf e i 4 di Jalili. In una Repubblica Islamica dove i voti contano solo se la Suprema Guida, l'ayatollah Alì Khamenei, decide di farli valere, il risultato non passa inosservato.
Cosa c'è dietro? Per comprendere perché Khamenei e i suoi abbiano tenuto aperti i seggi ben oltre l'orario ufficiale garantendo l'afflusso di milioni di elettori riformisti indecisi bisogna guardare a uno scenario internazionale dove l'intervento americano sul campo di battaglia siriano appare sempre più probabile. Perdere la Siria significa per Teheran rinunciare all'asse con Hezbollah indispensabile per tenere sotto tiro Israele e giocare il ruolo di grande potenza regionale. Consegnare la presidenza ad Hasan Rohani, il negoziatore nucleare che nel 2003 convinse Khamenei a sospendere l'arricchimento dell'uranio significa, di fatto, riaprire all'Occidente e dunque rendere assai impopolare un'eventuale decisione di bombardare la Siria e rinunciare al negoziato sul nucleare. Una tesi confermata dall'influente ex presidente Hashemi Rafsanjani che su twitter scrive: «Sono state le elezioni più democratiche del mondo, i nemici dell'Iran non potranno dubitarlo». Consegnare la presidenza ad un candidato uscito dalle accademie religiose di Homs come Rohani significa infatti regalare ai riformatori una vittoria gradita, ma inutilizzabile per cambiare le fondamenta del regime. Grazie al volto disponibile di Rohani, a una maggiore flessibilità sul nucleare e a qualche mediazione sul fronte siriano, Teheran potrebbe invece ottenere un rilassamento delle sanzioni indispensabile per contenere il malcontento di una popolazione fiaccata da crisi economica e inflazione. Obama ha aperto subito uno spiraglio: dopo essersi congratulato con «il coraggio» degli elettori iraniani» ha rinnovato la sua disponibilità a ricercare una «soluzione diplomatica» sul nucleare». In ogni caso il Khamenei deciso apparentemente a spedire all'inferno gli americani mette a segno un colpo da grande funambolo sacrificando i candidati conservatori sull'altare del pragmatismo internazionale. Un sacrificio ininfluente in termini di potere reale. L'architettura istituzionale iraniana non garantisce infatti alcuna opzione al presidente e al suo esecutivo nell'ambito della politica nucleare o delle decisioni strategiche. E le poche scelte del governo possono comunque venir bloccate dal Parlamento, dalla Guida Suprema o dal Consiglio dei Guardiani. Non solo. Oltre a cambiare l'immagine del paese consegnando alla storia le estemporanee uscite di Ahmadinejad, l'affermazione di Rohani allontana il pericolo di imbarazzanti manifestazioni come quelle registrate dopo la beffa elettorale del 2009. Dietro il gioco di specchi del voto cambia invece assai poco.

Il paese resta nelle mani di una classe dirigente capace di usare al meglio la maschera riformista del nuovo presidente per gestire il potere con lo stile e la sostanza di sempre.

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