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Milanese «prigioniera» in Arabia: il «Giornale» mi aiuti a rimpatriare

Un matrimonio si trasforma in sequestro. Un memoriale agghiacciante inviato da Jedda: l’ex marito saudita la picchia duramente e trattiene i passaporti suo e del padre 72enne

Milanese «prigioniera» in Arabia: il «Giornale» mi aiuti a rimpatriare

«Prigioniera» in Arabia Saudita non è il titolo di un film, ma la storia di Chiara Invernizzi, milanese di 40 anni, che si è sposata il rampollo di un'agiata famiglia del posto. «In Europa, quando l'ho conosciuto era amabile, un'altra persona - racconta l'italiana bloccata a Jedda -. In Arabia Saudita, però, la donna è sottomessa in nome dell'Islam. La vita assieme alla fine è diventata un incubo. Quando voleva insultarmi mi chiamava in maniera dispregiativa "cristiana". Mi ha ripudiata, secondo la tradizione islamica, ma non mi lascia partire per tornare a casa».

Nel regno saudita il tutore legale della consorte, anche se occidentale, è il marito, che trattiene il passaporto della moglie e deve dare il benestare per il visto di uscita dal paese. Chiara è «prigioniera» nel Paese arabo da marzo assieme al padre. Il marito rivendica la restituzione di una grossa somma che aveva depositato alla moglie. Chiara Invernizzi vive da 5 anni in Arabia Saudita e da tre era sposata con il vicepresidente della grande società di una famiglia importante a Jedda, che distribuisce anche prodotti occidentali.

«Mia figlia non era più se stessa. Tutta questa vicenda ruota attorno alle loro usanze e all'interpretazione dell'Islam. Una si sposa e deve cancellare gli amici maschi da Facebook, pure quello conosciuto alle medie quando aveva 13 anni» racconta Giovanna Lani. La madre è riuscita a tornare ad Alessandria grazie all'intervento del consolato italiano di Jedda. Il papà, di 72 anni, fa da autista a Chiara perchè una donna non può guidare. Il velo sul capo, se non la tunica nera, che copre tutto il corpo, è d'obbligo per le strade di Jedda, anche se sei italiana.

La sposa milanese bloccata in Arabia Saudita ha inviato al Giornale un memoriale per raccontare la sua storia di sottomissione e violenza. «Non mi sono mai sentita a casa mia, in quella grande casa dove non potevo neanche disporre i mobili secondo il mio gusto» scrive Chiara, che forse avrebbe dovuto pensarci bene prima di sposare un saudita. Il rapporto scoppia e lo scorso ottobre il marito la ripudia. In marzo Chiara e il padre vogliono tornare in Italia. «Come al solito abbiamo dato i nostri passaporti al mio ex-marito per l'obbligatorio visto d'uscita - scrive la milanese -. Ogni straniero dipende da uno sponsor, che può essere solo saudita e ha il diritto di impedirti di lasciare il Paese».
Il console italiano a Jedda interviene, ma nonostante il rilascio di nuovi passaporti a Chiara e al padre, non c'è verso di farli partire. Fino ad oggi le sollecitazioni formali alle autorità saudite non hanno ottenuto risposta.

La situazione precipita il 7 aprile, quando Chiara accetta un invito a cena del marito per appianare la faccenda. Lui ha uno scatto d'ira da gelosia. «Nel giardino ha iniziato a picchiarmi, tirarmi per i capelli e quindi mi ha stretto al collo il velo, che le donne devono portare in testa, trascinandomi come un cane verso casa. Mi è salito sul petto con entrambe le ginocchia prendendomi a sberle fino a farmi venire un occhio nero e sempre stringendomi al collo quel maledetto velo» scrive Chiara.

Al telefono da Jedda racconta: «Ha minacciato di raparmi a zero e di chiudermi in una stanza nel seminterrato, dove sono stata trascinata per i capelli per quattro rampe di scale. Secondo il Corano, una moglie disubbidiente dev'essere punita». Con le foto dei lividi l'italiana va alla polizia «e così inizia l'odissea nella burocrazia saudita». A fine maggio arriva davanti ad un giudice che applica la sharia, la legge islamica. Chiara è difesa dall'avvocato indicato dal consolato, Ahmad Faisal Yamani, nipote dell'ex potente ministro del petrolio saudita.

«“Donna! Dove vai?”. Mi giro spaventata e mi trovo davanti un poliziotto che urlando e agitando le braccia mi indica una porticina. Guardo il mio avvocato e lui annuisce. Per la segregazione dei sessi non posso rimanere con lui e mio padre, ma devo attendere nella sala d'aspetto femminile» scrive Chiara. «Apro la porticina e mi trovo in un corridoio con tre stanze. Nella seconda due giudici stavano interrogando una donna eritrea o somala. Gli uomini urlavano e la poveretta bisbigliava qualche parola. Non so perché mi sono venute in mente gli interrogatori dell'Inquisizione!» si legge nel memoriale.

Dopo la denuncia il marito sembra disponibile ad un accordo. Si arriva a un compromesso anche sulla grossa somma versata alla moglie, che è il nodo del contendere secondo il saudita. Da Roma promette di intervenire l'ambasciatore del regno. Prima del Ramadan il marito fa saltare tutto. Non solo: minaccia di denunciare la moglie per appropriazione indebita e adulterio, che in Arabia Saudita è punita con la pena di morte.

In Italia, alla procura di Alessandria, l'avvocato di Chiara presenta un esposto. La sposa italiana e suo padre rimangono «prigionieri» in Arabia Saudita. «Ho fiducia nel re che è uomo illuminato e giusto - scrive nel suo appello Chiara -. Spero che la pubblicazione della mia storia serva a smuovere i livelli alti della diplomazia, perchè dopo cinque mesi di trattative e false speranze, inizio a vacillare».

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