Controstorie

Fame, tensioni e ingerenze L'incognita America Latina

Dal Venezuela in ginocchio alla svolta brasiliana di Bolsonaro, il 2019 diventerà un anno cruciale

Paolo Manzo

da San Paolo

Il 2019 sarà l'anno in cui l'America Latina - continente grande 5 volte l'Unione europea ma con quasi gli stessi abitanti e risorse naturali immense tornerà al centro dell'attenzione soprattutto a causa del dramma del Venezuela. Il dittatore Nicolás Maduro si è fatto proclamare presidente sino al 2025, dopo l'ennesima frode elettorale, da una Corte Suprema illegittima, essendo il suo presidente Maikel Moreno un ex 007 pluriomicida. Il tragico è che Caracas ha le maggiori riserve di petrolio certificate al mondo ma il ventennio di populismo comunista figlio del Foro di San Paolo (organizzato nel 1990 nella metropoli brasiliana dall'oggi carcerato Lula su indicazione di Fidel Castro per riproporre il modello marxista in crisi dopo il crollo del Muro di Berlino) ha trasformato quella che negli anni Settanta era stata ribattezzata la Venezuela «saudita» in un inferno. Qui oggi i bambini muoiono per denutrizione e mancanza di farmaci e non a causa dell'embargo Usa, come alcuni scrivono in malafede. La dittatura, è doveroso ricordarlo, non accetta l'aiuto internazionale della Caritas. E manda in carcere, tortura o addirittura uccide i suoi oppositori avvalendosi di tribunali ridotti ormai a corti naziste. Il mondo assiste a questa catastrofe annunciata e da due anni al maggiore esodo di tutta la storia dell'America Latina perché a nessuno, neanche ai venezuelani che votarono nel 1998 per Chávez e ora se ne pentono amaramente, piace morire. Non potendo più cambiare presidente «votano con le gambe», ovvero fuggono in massa.

«Quello di Maduro è un governo genocida» non si stanca di ripetere lo scrittore peruviano Jaime Bayly, un liberale che conduce una seguitissima trasmissione sul canale Megatv di Miami e se si guardano le cifre dell'esodo - solo in Colombia la settimana scorsa ne sono entrati una media di 5mila al giorno - non si può che dargli ragione: per l'Onu entro fine 2019 saranno 8 milioni i venezuelani costretti a emigrare, più del 25% della popolazione totale. Se in Venezuela la comunità internazionale non si deciderà a intervenire per fermare il genocidio, limitandosi come ha fatto sinora ad alleviare i sintomi - ovvero spendendo miliardi di dollari per chi fugge - invece di agire sulle cause, il risultato sarà lo stesso di Cuba, ovvero un Paese sotto il giogo di una dittatura per altri 60 anni. A detta dell'ex ambasciatore Usa presso la Oea, l'Organizzazione degli Stati Americani, Luis Lauredo, il problema è che «senza un intervento militare - e basterebbe anche solo un blocco navale, fermando la lobby texana del petrolio che invece continua a comperare greggio venezuelano pagando cash - Maduro non se ne andrà mai, perché sa che lo attende un futuro alla Milosevich o alla Noriega».

Il 2019 sarà comunque un anno importante anche per il resto dell'America Latina, dal Messico dove si è insediato da 40 giorni il populista di sinistra López Obrador, all'Argentina di un sempre più debole Mauricio Macri, che in autunno tenterà comunque la rielezione. Mentre il polso del futuro prossimo latinoamericano, lo dà il Brasile di Jair Bolsonaro. Dopo il Messico - priorità degli Stati Uniti per ovvi motivi geografici avendo 3mila km di confine in comune - è infatti il Brasile che «per dimensioni e risorse» è «il leader naturale della regione», come ha scritto George Friedman nel suo libro The Next 100 years. Di certo il trionfo del populista di destra Bolsonaro ha fatto ripartire la borsa di San Paolo, che ha superato quota 90mila inanellando una serie di record senza precedenti oltre a rafforzare il real contro euro e dollaro del 10% in pochi giorni e ad attirare i principali fondi di investimento del pianeta generando un'euforia nel settore immobiliare che non si vedeva da tempo. La previsione è che continui così sino a giugno, poi dipenderà da come Bolsonaro riuscirà a governare perché, non avendo una maggioranza in Parlamento, sarà per lui gioco forza fare compromessi. Questo potrebbe ritardare le riforme strutturali di cui il paese del samba ha estremamente bisogno, a cominciare da quella delle pensioni. Oltre che nella già citata Argentina, quest'anno si vota anche in Bolivia e Uruguay dove il governo di sinistra guidato da Tabaré Vasquez è in crisi a causa dell'ondata di violenza che ha trasformato Montevideo in una città con 15 omicidi ogni 100mila abitanti l'anno. Con la legalizzazione della cannabis, iniziata nel 2013, l'ex presidente Pepe Mujica e tutto il sinistrorso Frente Amplio avevano assicurato che «la violenza sarebbe calata» e che la marijuana di Stato avrebbe «tolto potere ai narcos». Il risultato è stato che oggi la violenza a Montevideo è raddoppiata rispetto a Buenos Aires ed è 5 volte maggiore che a Santiago del Cile. Paradossale che, adesso, il Fronte Amplio dica che il boom criminale sia dovuto al narcotraffico e alla crisi economica del 2002. Dopo avere espulso dal partito il segretario generale dell'Oea, Luis Almagro, solo perché denunciava la dittatura del Venezuela, la sinistra dell'Uruguay sta perdendo consensi ed è molto indietro nei sondaggi.

Come in Venezuela, anche in Nicaragua aumenteranno la repressione del satrapo Daniel Ortega e l'esodo esploderà a livelli mai prima sperimentati mentre per la prima volta da decenni si registra un malcontento crescente a Cuba, dove il problema della dittatura, al di là del diversivo della modifica costituzionale, è soprattutto dovuto ai giovani che della continuità castrista ne hanno le tasche piene. Insomma il 2019 sarà un anno di rottura rispetto al recente passato quando Cina, Russia e Paesi arabi grazie al corrotto socialismo bolivariano, l'hanno fatta da padroni in America Latina.

Resta da vedere se Trump riuscirà a riappropriarsi del suo «cortile di casa».

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