Controcultura

La felice disperazione dei giovani lavativi

"Il colore della memoria"

La felice disperazione dei giovani lavativi

Un lettore italiano che leggesse per la prima volta Il colore della memoria, romanzo d'esordio di Geoff Dyer che arriva dopo la comparsa, quest'anno, di altri due suoi titoli, Sabbie bianche e Un'altra formidabile giornata per mare, probabilmente lo accosterebbe al Tondelli di Altri libertini. Non sbagliando, perché entrambi i libri sono rappresentativi di un decennio, gli Ottanta - Londra da una parte, la provincia emiliana dall'altra -, e di quella felice disperazione che è la giovinezza. Eppure, il nome che mi risuonava in testa durante la lettura era quello di Lawrence Durrell. Ma non per la serie del «Quartetto di Alessandria», bensì per l'esordio de Il libro nero (anche qui Londra e la giovinezza, ma negli anni Trenta) che sconvolse Henry Miller, il quale gli scriverà, in una lettera, che il romanzo «infrange i confini libreschi, trabocca e crea un diluvio che non è più un libro, ma un fiume di lingua, il Verbo spezzato nei suoi elementi compositivi, una corsa pazza».

Sono questi i nodi su cui si sviluppa anche il romanzo di Dyer. La lettura de Il colore della memoria (edito da Il Saggiatore) non ci trasporta per la sua trama - una vera trama, del resto, non c'è. Dipende invece dalla coincidenza tra ciò che si racconta e il modo in cui lo si fa. È la lingua che restituisce il senso della storia; o sarebbe più esatto chiamarla vita: una dissoluzione esistenziale (l'assopimento dovuto all'alcol, al fumo e alla pioggia che cade sulla metropoli inglese) che stride con una disperata vitalità (la giovinezza di un gruppo di amici, dei «lavativi» senza progetti e speranze, che ascoltano musica jazz, parlano di letteratura e filosofia e trascorrono «il tempo, sprecando interi pomeriggi e fregandocene di tutto, perché era inverno e avevamo chissà quanti pomeriggi davanti»).

Dyer non ha l'espressionismo di Durrell - la sua lingua è più lineare, meno metaforica -, ma il suo libro appare altrettanto lirico. Entrambi sono il dettato di uno stato mentale. Per questo quel poco che nel romanzo accade è tutto sommato irrilevante. Il punto è proprio quella «corsa pazza» di cui parlava Miller. Come dire: è la vita non così come accade, ma per come si esprime nel suo rincorrere un evento mai avvenuto, che forse accadrà, ma che nonostante tutto già è.

Perché vissuto in quel vuoto esistenziale in cui i significati si formano (e fondano) in un'apparizione: quello stato mentale che è la scrittura.

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