Politica

Formica assolto dopo 17 anni

L’ex ministro del Psi aveva 66 anni all’inizio del calvario, adesso ne ha 83. La toga che lo ha messo sotto accusa ingiustamente adesso è senatore del Pd. Politici scagionati dopo processi fiume: da Mannino ad Andreotti

Formica assolto dopo 17 anni

Accusato di tangenti, Rino Formica è stato pienamente assolto 17 anni dopo: non aveva intascato nulla. Nel frattempo, l’otto volte ministro socialista è passato dai 66 anni che aveva nel ’93,quando il processo iniziò, agli attuali 83. Per sua fortuna, è vivo, lucido e può assaporare la vittoria. Poteva andargli peggio. Ma intanto ha finito da allora con la politica che fu la sua vita e poteva ancora riservargli soddisfazioni. È stato ostracizzato, circondato da diffidenze, subissato di ironie.

Formica era negli anni ’80 e primi ’90 un politico potente e il numero uno del Psi in Puglia. Fu sospettato di avere favorito, in cambio di mazzette, la ditta Emit di Milano per la realizzazione di nastri trasportatori nel porto di Manfredonia. Dopo un processo a Foggia durato undici anni è stato condannato a quattro anni e sei mesi. Ci sono voluti altri sei anni prima che, l’altro ieri, la Corte d'appello di Bari lo assolvesse per non avere commesso il fatto. In precedenza, era già stato assolto - con la stessa ampiezza - dall’accusa, altrettanto fasulla, di tresche con il re delle cliniche pugliesi, Francesco Cavallari. Uno scandalo spacciato per prova regina della corruzione del pentapartito nella prima Repubblica. Imputati di spicco furono Formica e il democristiano, Vito Lattanzio. La causa durò 14 anni e si è conclusa nel dicembre dell’anno scorso. Formica e Lattanzio e la totalità dei presunti correi (31 persone) furono assolti sia in primo che in secondo grado. Per le cliniche, Formica e Lattanzio trascorsero mesi agli arresti domiciliari. Formica fece il bis dell’esperienza anche per la vicenda Emit.

Casi patenti giustizia coi piedi. Ora, i soliti ammiratori delle toghe diranno che alla fine, però, la giustizia ha trionfato. Lo stesso Rino, visibilmente sollevato, ha detto al termine del processo Emit: «Ho avuto fiducia nella magistratura e sono stato premiato. I magistrati passano, la giustizia resta. Una magistratura che sa giudicare esiste ancora». La gioia gioca brutti scherzi, l’orgoglio fa il resto. Comprensibilmente fiero di avere resistito alla mattanza giudiziaria, l’ex ministro non ha voluto infierire.

Noi invece che non abbiamo dovuto vivere le sue stesse vicissitudini, siamo molto più imbufaliti. Trovo pazzesco che un tizio debba passare un quarto della propria esistenza tra le grinfie dei giudici prima che si accorgano della sua innocenza. Non è un sistema: è tortura di Stato. Loro che ti hanno incastrato, intrufolandosi nella tua vita e prontissimi a rovinartela, almeno una cosa hanno il dovere di fare: spicciarsi. Niente ferie, signori, avete l’obbligo dell’insonnia finché la verità non viene a galla. Invece, voi che avete rotto le uova nel paniere, vi sentite autorizzati a obbligare me a ingurgitare la vostra frittata. Tangentopoli, in cui la vicenda Formica si inserisce, con la sua stragrande maggioranza di assoluzioni a babbo morto, ha calpestato un principio cardine: la ragionevole durata del processo.

I tempi non sono una variabile indipendente della giustizia, soprattutto di quella politica. Perché, vero che ora Formica è stato assolto, ma il suo partito - e vale anche per Dc, Pri, Pli ecc- intanto è scomparso. A spacciarlo non sono state tanto le inchieste quanto le lungaggini bibliche delle istruttorie. Niente resiste a 15 o 20 anni di indagini. Altri prendono il posto dei partiti azzoppati e, al termine, l’intera geografia politica di un Paese è artificiosamente cambiata. È questa l'essenza della rivoluzione giudiziaria italiana, giustamente definita «falsa rivoluzione».

Aperti i procedimenti contro di lui, l’innocente Formica non è stato rieletto in Parlamento nel ’94 e da allora si è ritirato. Era stato un ministro capace e uno spirito libero. Quando vide che al craxismo trionfante si accodavano avventurieri interessati bollò l’Assemblea nazionale del Psi come un coacervo di «nani e ballerine». Non è mai stato un tipo che le mandava a dire. Celebre la sua lite con un altro temperamento peperino, il dc Nino Andreatta, che causò la caduta del secondo governo Spadolini nell’82. Nino era ministro del Tesoro, Rino delle Finanze. Andreatta, che non amava Craxi, disse che il Psi faceva una politica «nazionalsocialista». L’allusione al nazismo non piacque ovviamente a Formica che si infuriò. Andreatta, beffardo, si giustificò dicendo che aveva usato il termine all’inglese e che intendeva invece dire «socialismo nazionale». Rino, insoddisfatto, continuò a punzecchiare e Andreatta reagì appiccicandogli l’etichetta di «commercialista di Bari».

La replica di Formica fu fulminea: «Andreatta? Una comare sul ballatoio». Fa tenerezza ricordarlo oggi che Max D’Alema manda i giornalisti «a farsi fottere».
Disoccupato e in attesa che la magistratura, con comodo, lo scagionasse, Rino si è riciclato in analista politico. Si è dimostrato acuto e preciso, non sfiorato dall’età. Ha collaborato alle Nuove ragioni del socialismo, rivista di Emanuele Macaluso, un ex comunista fuori dal coro. Fedele al ricordo di Craxi, ha fatto in gennaio un discorso memorabile per il decennale della morte. Ha perfino fondato un movimento, Socialismo e libertà, schierandosi - chissà perché - col centrosinistra dove si annidano tutti quelli che gli hanno voluto male. Oggi, è il padre nobile degli ex psi pugliesi e non solo.
La cosa potrebbe finire qui se lo stesso Formica non avesse detto all’uscita dal tribunale due giorni fa: «Non è la magistratura che è malata. Ci sono dei magistrati malati». Richiesto di spiegarsi, ha aggiunto: «Negli anni di Mani pulite l’intreccio tra politica e giudici era innegabile. Verrà il momento in cui chiederemo il conto ai profittatori di regime». E ha fatto il nome di Alberto Maritati, il pm di Foggia che lo ha ingiustamente incriminato due volte, precisando: «Da anni è senatore del Pd. Che robaccia, che intrico tra magistratura e malaffare, c’era in quegli anni a Foggia». Non è un complimento. Anzi, una chiara allusione a una strategia giudiziaria del suddetto pm per liquidarlo.

Maritati è una toga che ha sempre coltivato ambizioni politiche. Nell’83 fu candidato alla Camera per i socialisti di Claudio Signorile. Fece fiasco e da allora, dicono, si è mosso in odio al Psi e alleati. Sta di fatto che fu lui a mettere nei guai il pentapartito in Puglia sia con le cliniche che con i nastri trasportatori. Ignoro quali prove avesse. Non è però una gran lacuna poiché quelle che aveva, se le aveva, sono state successivamente buttate alle ortiche pure dai suoi colleghi. Maritati si è anche distinto per avere scoperto, dieci anni dopo il fatto, che D’Alema aveva preso una mazzetta da quel Cavallari re delle cliniche.

Glielo confermò lo stesso Max durante un interrogatorio. Nel verbale, il pm - che ormai non poteva più incriminarlo per sopravvenuta amnistia - elogiò il tangentista con i baffetti per le sue «leali dichiarazioni». L'anno dopo Maritati fu eletto senatore del Pd in quota D’Alema. Lo è tuttora.

Forse, evocando i «profittatori di regime», Formica è stato avventato. Ma ha anche torto?

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